I miei ultimi giorni ad Aleppo
A settembre abbiamo pubblicato un articolo in cui il corrispondente dell’Afp da Aleppo, Karam al Masri, dava un’idea di come fosse vivere nella città assediata, mentre Rana Moussaoui, vicecapo dell’ufficio di Beiurt dell’Afp, raccontava cosa significava ricevere notizie da Karam ogni giorno. Ora Al Masri vive a Istanbul e qui racconta i suoi ultimi giorni ad Aleppo.
A volte voglio chiudere gli occhi e immaginare che tutto quello che è successo è stato solo un brutto sogno. Vorrei svegliarmi ad Aleppo, sei anni fa.
Di solito i fotografi e i reporter di guerra sono inviati al fronte per raccontare un conflitto, poi quando la loro missione è finita tornano a casa.
Non io. Ho vissuto l’inferno, ma non ho ancora avuto una tregua. Vivo nel presente ma sto correndo verso l’ignoto.
Non sopporto più di vedere le fotografie e i filmati che ho realizzato ad Aleppo per l’Afp. Mi si stringe il cuore e sono inondato di ricordi, sia belli sia dolorosi.
Nella mia testa rivedo dei lampi degli ultimi cinque anni della mia vita: una rivoluzione, una ribellione, una guerra e tutto il mio mondo messo sottosopra. Dormo pochissimo. Gli incubi e i sogni si succedono uno dopo l’altro: sogno di Aleppo prima della guerra, poi immagini di bombardamenti e sangue.
A Istanbul, dove vivo oggi, la notte sono prigioniero dei miei pensieri. Non sembro in grado di dimenticare. Ogni goccia di sangue macchierà per sempre la mia memoria.
Non posso accettare l’idea che non tornerò mai più in Siria. Lì ho lasciato tutto: la mia casa, il mio quartiere, il mio album delle fotografie. Non ho potuto portare con me nessun ricordo. Non ho potuto dire addio alla tomba di mia madre. Sento una nostalgia indescrivibile.
Vorrei poter rivedere le facce stanche dei miei vicini di casa di Aleppo. Ricordo Abu Omar, che collezionava auto d’epoca e che ho intervistato per il mio primo servizio video per l’Afp nel febbraio 2016. Si è rifiutato di lasciare la casa nella quale è cresciuto. Anche io non volevo partire.
Ad Aleppo scattare fotografie e raccontare la sofferenza dei suoi abitanti mi ha aiutato a sopravvivere. Adesso è come se la mia vita non avesse più senso.
La provincia di Aleppo. Poi Gaziantep. Infine Istanbul. Più mi allontano dalla mia città, più la mia tristezza si fa profonda. Temo di non essere in grado di sopportarla. Ho paura che mi sentirò per sempre uno straniero.
Nell’ultima settimana ad Aleppo ero svuotato. Sono stato costretto a scappare, senza pausa, da un posto all’altro. Avrei preferito rimanere sotto lo stesso tetto, nonostante i bombardamenti. A volte non avevo un materasso sul quale dormire. Altre volte ero senza lenzuola. Ho dormito al freddo. Non mangiavo altro che una manciata di datteri andati a male. Ho cominciato a sognare autobus verdi (quelli usati dal governo siriano per le evacuazioni concordate) che mi portassero via da quell’inferno.
L’ultima settimana ad Aleppo è stato il periodo più brutto dall’inizio della guerra. È stato peggio di quando sono stato fatto prigioniero dal gruppo Stato islamico (Is). Ero dominato dalla paura. Non osavo avventurarmi per le strade per scattare delle fotografie. C’erano massacri. Ed ero ossessionato da un’unica idea: che sarei morto a casa mia o nella mia strada.
Le mie paure erano giustificate, perché la mia casa è stata bombardata. L’esercito si stava avvicinando e continuavo a sentir dire che c’erano esecuzioni sommarie. Sono scappato, ma non senza filmare un ultimo video del mio quartiere che veniva bombardato. Ho lasciato tutto, tormentato dal senso di colpa.
Mi sono rifugiato in un altro quartiere ma i bombardamenti mi hanno seguito. Ho portato con me solo le mie due macchine fotografiche, il mio computer portatile, il mio passaporto e un po’ di soldi.Ma ho perso anche tutto questo negli ultimi giorni. Per me è stato il colpo di grazia.
Il trauma peggiore è stato perdere la mia macchina fotografica. Era una Canon 5DMark III che mi ero comprato con i miei soldi. Era la mia compagna, la mia amica. Quando scendevo in strada per scattare alcune foto, veniva con me dappertutto.
Uno degli ultimi giorni ho lasciato le mie cose a casa di un amico mentre mi collegavo a internet per spedire all’Afp alcuni filmati. È bastato uno stupido incidente, del gasolio fuoriuscito da un riscaldamento a gas, perché un incendio divorasse tutto il palazzo, comprese le mie cose. Non avrei mai pensato che in appena un quarto d’ora avrei perso la mia preziosa macchina fotografica.
Ero disperato. L’ultima cosa alla quale mi ero affezionato, distrutta. Non mi aspettavo di perdere la cosa a cui tenevo di più al mondo in un attimo. Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? Perché la sfortuna mi perseguita così? La domanda mi tormentava. Continuavo a subire una perdita dopo l’altra. Ho cominciato ad avere idee folli: speravo che un razzo mi colpisse, uccidendomi.
Con l’aiuto dei giornalisti dell’Afp a Beirut, ma anche a Nicosia e Parigi, ho cominciato a sentirmi meglio. Poco alla volta, la mia depressione è passata e ho cominciato a parlare del futuro: volevo vivere.
Lasciare Aleppo è stato come il giorno in cui sono stato colpito alle gambe da un cecchino, nel 2014. Per i primi dieci secondi, non ho sentito niente. Ho continuato a camminare con la mia gamba ferita perché dovevo sfuggire al cecchino, e mi sono nascosto in un edificio vicino. Ma poi è arrivato il sangue, e anche il dolore.
Con Aleppo è stata la stessa cosa. Quando sono partito, ero come sedato. Non sentivo niente. Ma il giorno dopo ho cominciato a sentire la sofferenza dell’esilio.
Come sarei potuto vivere senza Aleppo?
Non c’è più nulla. La vita che avevo non tornerà più. Mi sento come se fosse solo il mio corpo ad aver lasciato Aleppo. La mia anima è ancora lì.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.