Quando spiego alle persone che cosa stiamo facendo, loro vogliono sapere della stanza in cui si “produce”. Io allora spiego che prima bisogna compilare un sacco di scartoffie. Che ti fanno una foto e ti controllano il documento. E poi ti accompagnano nello stanzino. Ti danno una lista di istruzioni, alcune etichette adesive e un barattolino di plastica. Il barattolino ha un coperchio verde scuro.
Nello stanzino c’è un videoregistratore. Mi diverto a trascrivere i titoli dei film, per poi riferirli a mia moglie e ai miei amici: Fighe tempestose #4, Pornoregine nere e Le furie del Sol levante. Tra le protagoniste di quest’ultimo, c’è una donna con i seni così gonfiati che sembrano luminescenti, come l’organo sensoriale di un pesce degli abissi scoperto da poco. Nessuno sta lì a cronometrarti, ma la percezione del tempo che passa ce l’hai. Ti metti al lavoro, tentando di non pensare a una serie di cose.
Le cose a cui non devi pensare sono i soldi che stai spendendo e il fatto che gli esperti non riescono a individuare quale sia il problema. Il mio sperma è migliorato, dopo che ho smesso con i bagni caldi e la Coca Light, e le tubature di mia moglie, nell’isterosalpingografia, sembrano a posto. Non devi pensare agli altri tizi che se lo stanno menando a un metro e mezzo da te, ma solo a evitare di far cigolare la sedia. E cercare di centrare il barattolo. Una volta finito, avviti il coperchio verde scuro, scrivi il tuo nome e quello di tua moglie sull’etichetta, metti tutto quanto in un sacchetto a chiusura ermetica e suoni l’apposito campanello. Arriva una donna, l’ennesima infermiera. Prende il sacchetto, lo solleva e lo osserva alla luce. Sulle scartoffie viene espressamente chiesto di non fare battute in quel momento.
La cosa peggiore che può capitarti, in quella stanza, è la “mancata produzione”. Ti avvertono in anticipo. Ci sono uomini che sono entrati ore prima e ancora devono uscire. Sono lì dentro che singhiozzano con le braccia anchilosate. Le mogli o le compagne se ne stanno in sala d’aspetto, di pessimo umore per via dei trattamenti ormonali. Nessuno mostra comprensione per un uomo che non riesce a produrre. Dovrebbero, ma no. E tu non vuoi certo essere quell’uomo. A me finora è andata bene. E, per ogni evenienza, sul telefonino ho sempre qualche video apposito.
Ovunque, intorno a noi, si muovono ondate di marmocchi saltellanti, eserciti di bambine, passeggini che cigolano sotto il peso del loro felice carico
Poi l’infermiera porta il sacchettino ermetico in una stanza piena di macchinari, dove il campione viene passato in una centrifuga. Io intanto raggiungo mia moglie, imbottita di sostanze chimiche che favoriscono l’ovulazione, in un ambulatorio. Un dottore con una siringa di plastica inietta il mio seme purificato e potenziato dentro mia moglie. E poi aspettiamo.
Tre anni d’attesa. Ovunque, intorno a noi, si muovono ondate di marmocchi saltellanti, eserciti di bambine, passeggini che cigolano sotto il peso del loro felice carico. Status di Facebook, email e biglietti natalizi arrivano corredati di immagini di infanti con le faccine imbrattate di avocado o di torta. Neonati su tappeti, neonati con berrettini. Inviti a feste per celebrare il lieto evento con la calligrafia in corsivo e i disegnini di cicogne. Bevendo una birra, un futuro padre – l’ennesimo – mi comunica la notizia, dicendo che lui e sua moglie stanno per avere il secondo o il terzo. Non sono felice per lui? E come potrei non esserlo? Per l’ennesima volta, tendo la mano, chiudo gli occhi e gli auguro tutto il bene del mondo.
Ogni giorno, almeno una volta al giorno, la nostra gatta Desdemona, una bella gattona con gli occhi verdi, arriva portando in bocca un paio di calzini puliti, come se fossero un gattino. Poi li lascia cadere a terra e si mette a ululare angosciata, nemmeno stesse per morire. Mi guarda, quindi ulula un altro po’. Allora io vado da lei, le accarezzo le orecchie e le dico: “Lo so, amore mio”. A volte, tornando a casa, di paia di calzini ne troviamo tre o quattro. Tre o quattro neonati di stoffa disseminati per la casa.
Momenti di intimità
Mia moglie si è comprata cinque o sei paia di calzini da portare in clinica. Sopra ci sono scimmiette, ninja e baffi. Al dottore piacciono. Mia moglie infila i piedi nelle staffe sospese. Il dottore le infila degli oggetti nella vagina – non fanno che infilarle oggetti nella vagina – dopodiché dice: “Ma che belle, queste scimmiette”. Io sto a guardare, appoggiato all’armadietto che contiene le garze e le siringhe.
Di quello che stiamo facendo non parliamo con molte persone. Quando lo facciamo, alcuni ci dicono: “Be’, provarci dev’essere divertente”. Oppure: “Ma siete sicuri che lo state facendo nel modo giusto?”. Io rido con loro. In fin dei conti, quante volte mi è capitato di dire cose prive di tatto tentando di fare lo spiritoso? Non parlo delle forti dosi di medicinali che devo iniettare nelle chiappe di mia moglie, facendola gonfiare come un pallone di ormoni. E nemmeno accenno al fatto che i momenti di intimità siano diventati così meccanici e imbarazzanti da segnarli sul calendario del computer alla voce “farcire la signora”, con i promemoria rosa che a scadenze regolari spuntano sullo schermo.
Perdo peso. Vado alle feste e bevo troppo vino. Più di una donna mi appoggia una mano sul ginocchio e ride. Forse ai loro occhi appaio come un ragionevole compromesso. Diverse amiche lesbiche mi dicono che stanno tentando di concepire. Mi chiedo se non sia il caso di intrufolarmi nelle loro vite. Può interessargli lo sperma di un bestione nervoso e depresso che ha consumato cinque autocisterne di Coca Light?Mentre mia moglie se ne sta con le gambe per aria e il dottore le esplora l’utero con la sonda dell’ecografo, mi vengono certi pensieri. Penso a quelle mani che mi sfiorano le ginocchia, e penso alle lesbiche.
Con mia moglie ne parliamo. Parliamo del protocollo che seguono alla clinica della fertilità. Parliamo del gruppo di sostegno che frequenta lei, e della mancata produzione. Parliamo di adottare, che è una faccenda costosa e complicata. Parliamo di gettare la spugna e vivere la nostra vita senza i fantasmi dei figli mai nati (i fantasmi più adorabili che esistano). Parliamo e parliamo, e intanto aspettiamo.
Tre anni, undici risultati negativi. Alla fine ci hanno detto: “Ok, ora sfoderiamo l’artiglieria pesante. Fecondazione in vitro. Bambini in provetta. Stimoliamo la produzione di ovuli con degli ormoni, li preleviamo e li mescoliamo con il suo sperma in un piattino. Poi trasferiamo gli ovuli fecondati direttamente nell’utero. Costa sui 15mila dollari. Ma ci sono delle offerte speciali”. Avevamo giurato di non arrivare a questo punto. Abbiamo chiesto: “È quello che si fa arrivati a questo punto?”. I dottori hanno annuito. E così siamo diventati persone che tentano di avere bambini in provetta. Pillola dopo pillola, puntura dopo puntura, stremati ma speranzosi. Seguendo il protocollo. Mia moglie ha prodotto gli ovuli, una decina di ovuli, appesi alle sue tube come grappoli d’uva. Aveva dolori e camminava con difficoltà.
Di lì a trentasei ore esatte, si sarebbe aperta una finestra di un’ora, e di un’ora soltanto, per prelevare gli ovuli al momento giusto
La sera di Natale, mia moglie si è fatta fare un’ultima, enorme iniezione. Eravamo a casa di amici, ai quali abbiamo chiesto se per favore ci lasciavano usare un attimo la loro stanza per iniettare dei farmaci dentro mia moglie. Ci mancherebbe, hanno risposto. Come mi avevano insegnato alla clinica, ho riempito la siringa di gonadotropina corionica umana e l’ho picchiettata con un dito. Per aiutarmi a prendere la mira, un’infermiera aveva disegnato un cerchio sul culo di mia moglie. L’ago è entrato. Quella puntura avrebbe portato gli ovuli a maturazione. Di lì a trentasei ore esatte, si sarebbe aperta una finestra di un’ora, e di un’ora soltanto, per prelevare gli ovuli al momento giusto. È un intervento chirurgico. Ti fanno l’anestesia totale.
Il giorno dopo Natale non abbiamo fatto altro che aspettare l’indomani. Abitiamo abbastanza lontani, a Brooklyn, e l’operazione era fissata per le nove del mattino a Manhattan. Abbiamo deciso di mettere la sveglia alle cinque. Un’ora per prepararci, un’ora di viaggio, e due in più se qualcosa fosse andato storto. A mezzanotte siamo finalmente riusciti ad addormentarci.
Il 27 mattina ci siamo svegliati al buio e circondati da mezzo metro di neve. Le strade erano silenziose e bellissime. Agitato, sono corso a controllare il sito dei mezzi pubblici, ma la metropolitana circolava regolarmente. Casa nostra si trova a ottocento metri dalla fermata più vicina, e così alle 5.45 esatte siamo usciti, facendoci strada tra gli alti cumuli bianchi. Gli spazzaneve non erano passati.
Molti minuti dopo, arrivando alla stazione, abbiamo scoperto che i treni delle linee B e Q non circolavano. Non c’erano auto né taxi. La gente era confusa. C’erano autobus fermi in mezzo alla strada. Circolavano voci come in tempo di guerra a proposito di fantomatici treni. Stando al sito dei mezzi di trasporto che lentissimamente si stava caricando sul mio telefonino, i treni della linea G circolavano. Noi ci trovavamo a un chilometro e mezzo dalla fermata della G più vicina. Abbiamo fatto dietro front. Mia moglie si trascinava zoppicando, con i denti stretti, le ovaie tese e indolenzite, reggendosi la pancia.
Abbiamo aspettato la metro G, che non è mai arrivata. Nel frattempo si erano fatte le 8.30. Avremmo già dovuto essere in città. Mia moglie ha chiamato alcuni servizi di autonoleggio con autista, che però ci hanno rimbalzato. Alla fine qualcuno è venuto e ha detto: “Oggi a Brooklyn non circolano treni. Solo la linea A da Jay street, e basta”.
Ma Jay street si trovava a chilometri di distanza. Almeno due ore a piedi, anche senza mezzo metro di neve o una moglie zoppicante. La clinica, poi, stava a più di quindici chilometri, una distanza impossibile. Non sapevo più che fare. Prima di quel mattino, la vita era stata tutta programmazione, percentuali e ottimismo, ma in quel momento avevo perso ogni speranza. Appoggiandomi contro il muro della stazione, ho pensato alla scarpinata che ci aspettava per tornare a casa, alle migliaia di dollari in sostanze chimiche che lentamente defluivano da mia moglie, a tutta quella salute e a quegli ovuli sprecati. Ho pensato: “E non abbiamo nemmeno potuto provarci”.
“Ok”, ha detto allora mia moglie, furiosa e sfinita. “Facciamo l’autostop”. Io ero scettico, ma non ho detto nulla. Perlomeno era un piano. Attraversando alcuni isolati, abbiamo raggiunto la superstrada. Mia moglie si è dovuta fermare più volte, piegata in due a respirare. Ma ce l’abbiamo fatta.
È stata lei ad alzare il pollice. Era più facile che qualcuno caricasse una signora. Ci siamo avvicinati alle macchine che si fermavano all’incrocio. “Dobbiamo andare a nord”, dicevamo. La bufera di neve aveva ridotto New York ai quattro punti cardinali. Quasi tutti rispondevano con gentilezza: “Non vado da quella parte. Mi dispiace”. “Grazie lo stesso”, replicavamo noi.
Poi, però, sull’Ocean parkway è arrivata la decima macchina, una monovolume guidata da un signore anziano, un ebreo ultraortodosso con un gran barbone. “Dobbiamo andare in Jay street”, gli ho detto. “Ma va bene anche solo se ci avvicina un po’ a nord”. “Ma certo”, ha risposto lui. “Salite”. Ci siamo messi a sedere. Mia moglie, bianca come un cencio, aveva gli occhi semichiusi. “Grazie”, ho detto. “Grazie davvero”.
E siamo partiti in quel bianco gelido. Abbiamo rischiato diversi incidenti. Auto sepolte in mezzo alla strada, auto che procedevano nella direzione sbagliata, gente che vagava senza meta. Tratti di superstrada chiusi. Il vecchio sbraitava contro la gente per strada e sulle altre macchine, mentre la monovolume sbandava in mezzo agli incroci. Ci ha raccontato di essere andato in macchina al lavoro, e che una volta lì l’avevano guardato come se fosse matto e rispedito a casa. Poi ha tirato giù il finestrino per inveire contro il conducente di un autorimorchio che stava risalendo Smith street contromano. Avevamo davanti una persona intrattabile che ci stava facendo una gentilezza incredibile.
Dopo una lenta e pericolosa traversata per le strade a malapena battute di Brooklyn, con il tempo a nostra disposizione che si esauriva, il vecchio ci ha lasciato in Jay street. Ho aiutato mia moglie a scendere dalla macchina, a superare i mucchi di neve e a scendere nella stazione.
Poi è arrivata la A, l’unica metropolitana che circolava. E circolava veloce e regolare. Malgrado le ore perse in mezzo al nulla, siamo arrivati alla clinica con soli quaranta minuti di ritardo, il fiatone e gli occhi fuori dalle orbite, superando i cumuli di neve a balzi. Un’infermiera è venuta a prendere mia moglie e l’ha accompagnata verso il suo piccolo intervento chirurgico.
Non volevamo altro che quella possibilità. Vedendo che l’ansia mi stava facendo tremare la mano, mi sono ricordato che quella mano mi serviva. Dovevo produrre. Dopo avermi registrato, mi hanno accompagnato nello stanzino. Ho preso posto sul sedile di plastica della sedia, ma non riuscivo a pensare ad altro che al vecchio signore barbuto che ci aveva fatto attraversare Brooklyn. Non riuscivo a togliermi dalla testa il suo viso, soprattutto nel momento in cui eravamo scesi dalla macchina. Gli avevo detto: “La prego, li prenda”, porgendogli sessanta dollari, tutto quel che avevo nel portafoglio. “No”, mi aveva risposto, “non si preoccupi”. “Li regali a qualcuno”, avevo insistito. “Lei ci ha fatto una mitzvah”. Un atto di generosità, una gentilezza intenzionale e libera da pregiudizi. Un atto di dovere morale, ispirato da Dio.
Solo nello stanzino, ho pensato a quel momento. Ho pensato a mia moglie, stesa su un tavolo operatorio al piano di sotto, priva di sensi per l’anestesia, e ai suoi ovuli portati a maturazione che venivano estratti con un ago, ai calzini con le scimmiette fradici di neve. Al fatto di desiderare quella cosa così tanto da spendere tutti i nostri soldi, rischiare una delusione, essere disposti ad accettare il giudizio del mondo. Seduto sulla sedia di plastica cigolante, ho acceso il videoregistratore. Avrei solo voluto chiudere gli occhi e dormire, e invece ho scacciato ogni altro pensiero, tutto quanto: la neve, la monovolume, il volto del vecchio, quei tre anni trascorsi senza figli. Ho abbassato la luce fino a una penombra sommessa.
Funzionerà? Le possibilità non sono tantissime, ma io seguirò il protocollo. Un meccanismo che non capisco si è ormai messo in moto, e non sarò certo io a fermarlo. Ho scelto questa persona in particolare, l’unica della mia vita, con la quale provare ad avere un figlio. Addio a quella possibilità di ginocchia sfiorate. Addio a ogni altra cosa. Se voglio diventare padre, non ho altra scelta se non dimenticare tutto ciò che sta fuori da questo stanzino. E produrre.
E così ho fatto.
Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2012 a pagina 80 di Internazionale con il titolo “Fare figli nell’epoca della riproducibilità tecnica”. Compra questo numero | Abbonati
La versione originale è uscita su The Morning News.
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