Dal 1998 Nicholas Dames insegna literature humanities, il corso obbligatorio della Columbia university dedicato ai grandi classici. Ama il suo lavoro, che tuttavia è cambiato. Negli ultimi dieci anni gli studenti hanno cominciato a soffrire la quantità di letture assegnate. Non che prima leggessero tutto quello che gli era dato, ovviamente, ma non si tratta solo di questo. Oggi molti studenti sembrano spaesati di fronte all’idea di leggere più libri ogni semestre. I colleghi di Dames hanno notato lo stesso problema. Molti studenti arrivano all’università, anche università molto selettive e considerate d’élite, senza più la capacità di leggere libri.

Dames non ha saputo spiegarsi il motivo di questo cambiamento fino a quando, nel primo semestre del 2022, una studente del primo anno ha bussato alla sua porta per confidargli quanto avesse trovato difficile rispettare le prime consegne. Non è raro che il corso richieda agli studenti di leggere interi libri, spesso testi lunghi e complessi, nell’arco di una o due settimane. Ma la studente ha raccontato a Dames che al liceo non le era mai stato chiesto di leggere un libro per intero. Aveva affrontato estratti, poesie e articoli di giornale, ma mai un libro dalla prima all’ultima pagina. “Sono rimasto senza parole”, ha ammesso Dames. Ma l’aneddoto lo ha aiutato a capire il mutamento che vedeva nei suoi studenti: il problema non è che non vogliono leggere, ma che non sanno come farlo. Alle scuole medie e superiori hanno smesso di chiederglielo.

Nel 1979 Martha Maxwell, un’influente studiosa nel campo dell’alfabetizzazione, scriveva: “Ogni generazione, a un certo punto, scopre che gli studenti non sanno leggere come si vorrebbe o come i professori si aspettano”. Dames, che si occupa di storia del romanzo, riconosce che questa lamentela ha una storia lunga. “In parte sono sempre tentato di essere scettico riguardo all’idea che questo fenomeno sia qualcosa di nuovo”, ha affermato. Eppure, ha aggiunto “c’è qualcosa che stiamo osservando e che non mi sento di ignorare del tutto”.

Vent’anni fa, le sue classi riuscivano senza problemi a condurre discussioni approfondite su Orgoglio e pregiudizio una settimana e su Delitto e castigo quella successiva. Ora i suoi studenti gli dicono apertamente che il carico di letture è insostenibile. Non è solo il ritmo serrato a metterli in difficoltà, faticano a cogliere i dettagli e allo stesso tempo a seguire l’impianto narrativo.

Non esistono dati completi su questa tendenza, ma la gran parte dei 33 professori con cui ho parlato ha parlato di esperienze simili. Molti ne hanno discusso durante delle riunioni di facoltà o nelle conversazioni con i colleghi. Anthony Grafton, storico di Princeton, ha osservato che i suoi studenti arrivano al campus con un vocabolario più limitato e una comprensione della lingua meno sviluppata rispetto al passato. Ci sono sempre studenti che “leggono con intelligenza e facilità, e che scrivono bene”, ha detto, “ma ora sono un’eccezione”. Jack Chen, professore di letteratura cinese all’università della Virginia, nota che i suoi studenti tendono a “schermarsi” dalle idee che non capiscono. Hanno meno capacità di perseverare di fronte a un testo impegnativo rispetto al passato. Daniel Shore, direttore del dipartimento di inglese della Georgetown university, mi ha raccontato che i suoi studenti faticano a concentrarsi perfino su un sonetto.

Non riuscire a leggere una poesia di quattordici versi senza cedere alle distrazioni rimanda a una spiegazione ormai nota dietro al declino delle capacità di lettura: gli smartphone. Gli adolescenti sono costantemente attratti dai loro dispositivi, il che compromette la preparazione necessaria per affrontare le sfide accademiche. Una volta arrivati all’università, le distrazioni non fanno che aumentare. “Sono cambiate le aspettative su ciò che merita attenzione”, spiega Daniel Willingham, psicologo dell’università della Virginia. “Essere annoiati è diventato innaturale”. Leggere libri, anche per piacere, non regge il confronto con TikTok, Instagram o YouTube. Nel 1976 negli Stati Uniti circa il 40 per cento degli studenti dell’ultimo anno di liceo dichiarava di aver letto almeno sei libri per piacere nell’anno precedente, mentre solo l’11,5 per cento affermava di non averne letto nessuno. Nel 2022 queste percentuali si sono capovolte.

Anche a scuola, però, i ragazzi delle medie e delle superiori hanno sempre meno occasioni di confrontarsi con i libri. Da più di vent’anni, iniziative educative come No child left behind e Common core hanno dato priorità a testi informativi e test standardizzati. In molte scuole i libri sono stati sostituiti da brevi brani informativi, seguiti da domande sull’idea principale dell’autore, riproducendo il formato dei test di comprensione. Antero Garcia, professore di pedagogia a Stanford e vicepresidente uscente del National council of teachers of english, che in passato ha insegnato in una scuola pubblica di Los Angeles, ha spiegato che queste linee guida erano pensate per aiutare gli studenti a sviluppare argomentazioni chiare e capacità di sintesi. Tuttavia, “in questo modo abbiamo sacrificato la capacità dei più giovani di confrontarsi con testi lunghi e articolati”.

Mike Szkolka, insegnante e dirigente con quasi vent’anni di esperienza nelle scuole di Boston e New York, ha spiegato che, ormai, gli estratti hanno sostituito i libri completi in tutti i grandi della scuola. “Non esiste un test che possa misurare la capacità di sedersi e leggere Tolstoj”, ha osservato. E se una competenza non è facilmente valutabile, insegnanti e dirigenti scolastici hanno pochi incentivi per promuoverla. Carol Jago, esperta di didattica della lettura che lavora con insegnanti in tutti gli Stati Uniti per aiutarli a strutturare i programmi scolastici, ha raccontato che molti le confidano di aver rinunciato a fare lezioni su romanzi che consideravano fondamentali, come La mia Antonia o Grandi speranze. La pandemia, con il caos che ha generato nei piani di studio e il passaggio alle lezioni online, ha ulteriormente accelerato l’abbandono delle opere integrali.

Un sondaggio recente condotto dall’Ed week research center su circa trecento insegnanti di scuola elementare e media ha rivelato che solo il 17 per cento lavora prevalentemente su testi integrali. Un ulteriore 49 per cento utilizza un mix di opere integrali, antologie ed estratti. Tuttavia, quasi un quarto degli intervistati ha dichiarato che i libri non sono più il fulcro dei loro programmi. Una insegnante di un liceo pubblico dell’Illinois mi ha raccontato che, mentre in passato costruiva le sue lezioni attorno ai libri, oggi si concentra sulle competenze, come la capacità di prendere decisioni. In un modulo sulla leadership, ad esempio, gli studenti leggono alcune sezioni dell’Odissea di Omero, integrate con musica, articoli e Ted talk (ha comunque precisato che i suoi studenti leggono almeno due libri a semestre). Un’insegnante di letteratura inglese ad Atlanta, invece, ha raccontato che la sua classe, un tempo, affrontava quattordici libri all’anno, mentre ora sono sei o sette.

Le scuole private, che formano la stragrande maggioranza degli studenti delle università d’élite, sembrano aver resistito più a lungo all’abbandono della lettura dei libri per intero. Questo, secondo Dames, ha generato un divario preoccupante nelle competenze di lettura tra le matricole. Anche le scuole private, in ogni caso, stanno cedendo. Al liceo privato che ho frequentato, per esempio, cinque anni fa ho seguito un corso su Jane Austen, eppure ho letto solo uno dei suoi romanzi.

Il problema segnalato da Dames e altri professori non è lo stesso che si riscontra nei community college (università pubbliche di primo livello) o nelle università meno selettive, dove alcuni studenti arrivano con lacune tali da non riuscire a completare i corsi. Gli studenti di università d’élite come la Columbia sono in grado di decifrare testi e frasi, ma faticano a mantenere la concentrazione e la motivazione necessarie per affrontare un’opera completa.

Di fronte a questa situazione, molti professori si sentono costretti a ridurre le letture e a rivedere le loro aspettative. Victoria Kahn, che insegna letteratura all’Università della California a Berkeley dal 1997, un tempo assegnava duecento pagine da leggere a settimana. Ora meno della metà: “Non faccio più leggere tutta l’Iliade. Mi limito ad alcuni libri, sperando che qualcuno legga il resto”, ha detto. “Non posso chiedere loro di leggere tutta l’opera in tre settimane: so che non lo farebbero”.

Anche Andrew Delbanco, professore di lungo corso di studi americani alla Columbia, ha cambiato il suo programma. Ha sostituito il corso generale di letteratura con un seminario su opere brevi della letteratura statunitense. In passato, il modulo dedicato a Melville includeva Moby Dick; ora prevede Billy Budd, Benito Cereno e Bartleby lo scrivano. Ci sono anche alcuni vantaggi: “Le opere brevi permettono di soffermarsi meglio sulle sottigliezze del linguaggio”, ha spiegato Delbanco, che ha accettato il cambiamento. “Bisogna adattarsi ai tempi”, ha concluso.

I responsabili del programma di literature humanities della Columbia hanno deciso di snellire la lista di letture per quest’anno accademico. Negli ultimi anni, nonostante gli studenti già faticassero a completare i libri assegnati, il corso si è ampliato, includendo opere di autrici e autori non bianchi. Come Delbanco, alcuni professori vedono dei vantaggi in questo cambiamento. Anche gli studenti più preparati, infatti, probabilmente saltavano parte delle letture. Joseph Howley, coordinatore del programma, preferisce sacrificare alcuni classici – Delitto e castigo, per esempio, è stato eliminato – per consentire una lettura più approfondita di quelli rimasti. Soprattutto, la riduzione darà ai professori più tempo per insegnare agli studenti a leggere come loro si aspettano.

Non è chiaro, tuttavia, se un programma alleggerito basti a risvegliare il piacere della lettura. Secondo alcuni esperti il problema non è la mancanza di capacità, ma un cambiamento di valori. Gli studenti sanno ancora leggere libri, ma scelgono di non farlo. Il futuro lavorativo li preoccupa molto più che in passato. Ogni anno, racconta Howley, molti dichiarano di apprezzare quello che hanno imparato durante il corso, ma di voler conseguire una laurea in un campo più utile alla carriera.

Gli stessi fattori che contribuiscono alla riduzione delle iscrizioni alle università umanistiche spingono gli studenti a dedicare meno tempo alla lettura durante i corsi. Un sondaggio del 2023 sui laureandi di Harvard ha rilevato che il tempo dedicato a lavori part time e attività extracurriculari è quasi pari a quello riservato allo studio.

Che sia per disabitudine o disinteresse, c’è una generazione di studenti che legge sempre meno. Forse torneranno a leggere con l’età—gli adulti più anziani sono tra i lettori più assidui—ma i dati non lasciano ben sperare. L’American time use survey rileva che il numero di persone che legge per piacere è calato negli ultimi vent’anni. Alcuni professori raccontano che i loro studenti paragonano la lettura all’ascolto di vinili: una pratica di nicchia, ormai retaggio del passato.

La sopravvivenza economica dell’industria editoriale dipende da un pubblico che abbia voglia e capacità di dedicare tempo a testi lunghi. Ma, come chi legge una rivista letteraria può ben capire, in gioco non c’è solo un rispettato settore economico. I libri coltivano una forma di empatia profonda, capace di trasportare il lettore nella mente di qualcuno vissuto secoli prima o in un contesto radicalmente diverso dal proprio. “Oggi l’empatia è spesso legata all’identificazione, alle politiche identitarie”, osserva Victoria Kahn, professoressa a Berkeley. “La lettura, invece, è più complessa, e proprio per questo amplia la nostra capacità di capire gli altri”.

Tuttavia, questi benefici richiedono di seguire un personaggio lungo tutto il suo percorso, un estratto di poche pagine non basta. La neuroscienziata Maryanne Wolf evidenzia come il deep reading – l’immersione prolungata in un testo – stimoli abitudini mentali preziose, come il pensiero critico e l’autoriflessione, in modi che la lettura frammentaria non può replicare.

Molti dei professori con cui ho parlato hanno dipinto un ritratto piuttosto cupo sulle abitudini di lettura di ragazze e ragazzi (una parziale eccezione è Adrian Johns, storico dell’università di Chicago, che ha commentato: “La mia esperienza è un po’ particolare, perché la nostra università è forse l’ultimo baluardo di chi legge davvero”). Da anni, Dames chiede alle sue matricole quale sia il loro libro preferito. Se un tempo rispondevano con titoli come Cime tempestose o Jane Eyre, oggi, dice Dames, quasi la metà cita romanzi young adult, con la saga di Percy Jackson di Rick Riordan in cima alle preferenze.

Poteva andare peggio. La serie di Riordan, per quanto ricca di azione un po’ frivola e di umorismo adolescenziale, si cimenta con un esercizio letterario antico quanto il canone occidentale: reinventare le avventure dei capricciosi dèi e degli eroi imperfetti della mitologia greca. Eppure c’è una ragione se, dopo millenni di reinterpretazioni, non abbiamo mai accantonato gli originali. Per capire la condizione umana e apprezzare le più grandi conquiste dell’umanità, bisogna ancora leggere l’Iliade, tutta.

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