Anche se i mezzi d’informazione internazionali ne hanno parlato poco, le proteste in corso in Serbia si profilano come l’evento più importante per il paese in questo 2017. Le dimostrazioni hanno quasi subito messo in ombra il successo ottenuto da Aleksandr Vučić, che il 2 aprile ha vinto le elezioni presidenziali.
Pochi si attendevano che gli altri candidati avrebbero potuto tenergli testa, ma il 55 per cento dei voti che ha consentito a Vučić, finora premier, di vincere già al primo turno è stato uno shock per molti. I fattori che hanno portato i cittadini serbi a reagire sono stati molti: dal sospetto che ci siano stati brogli, fino alla campagna mediatica aggressiva e al peggioramento della situazione economica nel paese.
Le proteste si sono svolte non solo nella capitale Belgrado, ma anche a Niš e in altre città di minori dimensioni. Nella sola capitale il numero dei manifestanti è passato da diecimila a trentamila in appena tre giorni. Il quarto giorno ha raggiunto le quarantamila persone e il sesto i mezzi d’informazione parlavano di circa ottantamila persone nelle strade. Contemporaneamente, agli studenti si sono uniti anche i sindacati della polizia e dei militari.
I giornali che sostengono Vučić (cioè i più importanti del paese) hanno però cercato di dare un’immagine diversa delle manifestazioni: “I drogati e gli alcolizzati imperversano nelle piazze”. Il neoletto presidente, da parte sua, ha affrontato gli eventi in corso con apparente calma, dichiarando che dopo tutto la Serbia è una democrazia e chiunque può protestare se lo vuole.
Le attuali tensioni hanno la loro preistoria. Bisogna tornare agli anni duemila, all’inizio dell’epoca aperta dalla caduta di Milošević
Nonostante le accuse virulente secondo cui i manifestanti sarebbero pagati dal miliardario George Soros e sarebbero fomentati dai partiti d’opposizione, nei cortei non si è visto nemmeno un politico, né sono stati utilizzati simboli di partiti. La rabbia ha preso di mira la campagna di Vučić e il pericolo della nascita di un nuovo autoritarismo nel paese. L’ultima volta in cui un politico ha vinto con un tale vantaggio le elezioni era stato nel 1992, ai tempi di Slobodan Milošević.
Come ogni evento, anche le attuali tensioni hanno la loro preistoria. Bisogna tornare agli anni duemila, all’inizio dell’epoca aperta dalla caduta di Milošević. Allora le élite, gli attivisti e gli intellettuali di Belgrado avevano accolto con entusiasmo le opportunità di ascesa sociale che si aprivano loro dopo un decennio di dominio da parte di Milošević.
Ma al di fuori della capitale la vita è molto diversa. Le proprietà statali sono state privatizzate a prezzi irrisori a favore di speculatori, che spesso fanno parte di tali élite. Molte persone hanno perso il posto di lavoro a causa di queste politiche e per i giovani che vivono nella periferia del paese la vita si fa sempre più dura. Migliaia di loro si sono trasferiti a Belgrado, contraendo prestiti con degli strozzini, e vivono nella più assoluta precarietà. Una volta arrivati nella capitale lavorano spesso senza contratto, senza forme di previdenza sociale e senza il diritto alle ferie (e spesso senza nemmeno il diritto ai giorni di malattia). Le autorità naturalmente promettono che in futuro arriverà il benessere, ma sono passati quasi due decenni e non lo si è ancora visto.
Questi sono i motivi più ampi dell’apatia che si è impadronita della società serba durante il periodo elettorale. A essi si può aggiungere la delusione per il contesto internazionale. Per esempio, molti hanno sfiducia nei leader dell’Ue, non solo perché parlano molto senza agire concretamente, ma anche perché l’Ue sostiene Vučić, cioè proprio l’uomo contro il quale da molti giorni protestano. Anche la corruzione è un fattore importante che ha alienato i giovani dalla élite politica, coinvolta in molti affari sporchi. Alle proteste prendono parte non solo gli studenti, ma anche pensionati e lavoratori che sono preoccupati per il proprio livello di vita e per la strada che il loro paese sta imboccando.
Tra Mosca e Bruxelles
Vučić è noto per avere cambiato a più riprese le sue posizioni riguardo al futuro europeo della Serbia. Anni fa si dichiarava scettico, oggi è di opinione esattamente opposta. È giunto addirittura a dichiarare che ogni tentativo di fermare il cammino verso l’Ue “dovrà prima passare sul mio corpo”. Questo tipo di frasi piace molto alla burocrazia europea e ai leader della Germania e della Francia, che hanno chiuso gli occhi sia sulla realtà economica del paese sia sulle ambizioni di Aleksandr Vučić. Nello stesso momento in cui parla di un futuro europeo, acquista armi da Mosca e mantiene strette relazioni con Vladimir Putin.
Uno degli slogan più frequentemente scandito dai manifestanti è “No alla dittatura!”. Sebbene la Serbia sia ancora lontana dall’avere un governo di questo tipo, le preoccupazioni non sono ingiustificate. Vučić ha consolidato il suo potere attraverso il proprio Partito progressista e mentre era premier ha siglato accordi sospetti, come quello con società di Abu Dabi, denominato “Belgrade Waterfront”, che prevede la costruzione di un enorme complesso immobiliare sulle rive del Danubio.
Non è inoltre un caso che durante le manifestazioni più recenti sia stato scandito lo slogan “Esci dallo schermo!”. Vučić infatti è noto anche per le sue intromissioni durante le trasmissioni in diretta, per il controllo sempre più rigido su giornali e tv del paese e addirittura per avere fermato programmi che non sono di suo gradimento. Durante la settimana che ha preceduto le elezioni del 2 aprile, per esempio, quasi tutti i giornali principali avevano in prima pagina un appello a votare Vučić.
In Serbia c’è una forte tradizione di giornalismo d’inchiesta che preoccupa fortemente il governo e l’oligarchia che lo sostiene
La situazione dei mezzi d’informazione in Serbia è preoccupante, le ultime indagini rilevano che tra i giornalisti aumenta l’autocensura. Nel 2015 Human rights watch ha pubblicato un rapporto sull’effetto deleterio che gli ambienti politici esercitano sui giornalisti serbi e, in generale, su quelli della ex Jugoslavia.
L’apatia, così come la rabbia esplosa nelle manifestazioni successive al voto del 2 aprile, si sentono non solo a Belgrado. Per farsene un’idea basta prendere l’autobus da Belgrado a Niš, seconda città della Serbia, e vedere sfilare l’una dopo l’altra una lunga serie di fabbriche abbandonate. Le stazioni degli autobus, uno dei mezzi di trasporto più utilizzati, sono particolarmente deprimenti: una volta ben mantenute e costruite nel tipico stile jugoslavo, oggi sono in stato di deterioramento e tappezzate da manifesti a sostegno di Vojislav Šešelj e di Aleksandr Vučić.
A differenza di altri paesi balcanici, in Serbia c’è una forte tradizione di giornalismo d’inchiesta che preoccupa fortemente il governo e l’oligarchia che lo sostiene. Si tratta di uno dei motivi per cui Vučić usa la “mano morbida” contro i propri opponenti, utilizzando la suggestione. Per esempio, uno degli argomenti spesso citati a suo sostegno è che non diffonde l’odio etnico, a differenza di altri politici serbi. La storia recente della Serbia è stata segnata dalla guerra, dalla disgregazione della Jugoslavia e dalle tensioni etniche o religiose successive ai conflitti degli anni novanta, la cui ombra pesa ancora sull’oggi. La questione del Kosovo e i ricordi dei bombardamenti americani del 1999 sono un tema che è ancora, e lo sarà per lungo tempo, oggetto di dibattiti sia a livello d’opinione pubblica sia tra le élite politiche. Vučić è riuscito a sfruttare questi elementi a proprio vantaggio inviando messaggi allo stesso tempo filoeuropei e filorussi, cercando di trovare un equilibrio tra i diversi strati della popolazione.
Non è chiaro in cosa sfoceranno le proteste. Per ora proseguono e il fatto che i simboli dei partiti siano assenti è un buon segno. In Serbia, un paese che sta andando verso l’autoritarismo, ma nel quale vi è una forte inquietudine sociale, la situazione potrebbe degenerare prima dell’assunzione della carica di presidente da parte di Vučić a fine maggio. Va inoltre seguito con attenzione anche l’evolversi del contesto regionale, vista in particolare l’instabilità in due paesi vicini come la Macedonia e la Turchia. I messaggi di coloro che manifestano a Belgrado non sono per nulla graditi alle élite politiche e ai mezzi d’informazione dei paesi vicini che servono gli interessi degli oligarchi e dei partiti politici che li sostengono. Denunciare la corruzione, e agire apertamente contro di essa, è ancora un fenomeno raro nei Balcani.
(Traduzione di Andrea Ferrario)
Questo articolo è apparso sul quotidiano online KlinKlin.
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