Alla fine di Fa’ la cosa giusta, il film di Spike Lee uscito nel 1989, il protagonista Mookie (interpretato dal regista) torna nella pizzeria di Sal la mattina dopo la rivolta, durante la quale la polizia ha ucciso Radio Raheem. Mookie si avvicina al suo vecchio luogo di lavoro, raso al suolo da un incendio, e trova il suo ex capo, Sal. “Voglio i miei soldi, voglio essere pagato”, dice Mookie. Sal gli risponde che il suo stipendio non basta lontanamente a pagare la vetrina che ha spaccato, istigando il saccheggio e l’incendio del ristorante da parte degli abitanti del quartiere. “Chi se ne frega della vetrina”, risponde Mookie. “Radio Raheem è morto”.
Quando Fa’ la cosa giusta uscì nei cinema, molti critici bianchi sembrarono più preoccupati dalle scene in cui si vedevano danni alle proprietà che dall’omicidio razzista commesso da un poliziotto o dai nomi delle vittime reali scanditi dai residenti di Brooklyn prima dell’inizio della rivolta. “È omicidio. Lo hanno fatto di nuovo. Come Michael Stewart. Omicidio. Eleanor Bumpurs. Omicidio”. Nel film di Lee i commentatori bianchi vedevano violenze arbitrarie e inutili devastazioni, mente i critici e gli spettatori neri vedevano una scena che rappresentava la furia e il dolore che impregnavano la loro vita quotidiana.
Oggi, mentre il paese è scosso dalle proteste contro l’ingiustizia razziale, la brutalità della polizia e l’omicidio di afroamericani come George Floyd, Breonna Taylor, Ahmaud Arbery e Tony McDade, sta riemergendo un dibattito sui danni alla proprietà. Come ha spiegato la storica Kellie Carter Jackson sull’Atlantic, “le dimostrazioni pacifiche e le violenze hanno rivelato il sistema dei due pesi e due misure con cui vengono giudicate le rivolte negli Stati Uniti”, creando un acceso dibattito su quale forma di protesta sia da considerare moralmente appropriata. La discussione affonda le sue radici nella cultura popolare e nei film, dove le rivolte dei bianchi sono glorificate mentre quelle dei neri vengono regolarmente stigmatizzate, fornendo l’ennesima prova di quale sia la discrepanza tra il valore assegnato agli oggetti materiali e quello dato alla vita degli afroamericani.
Gli eroi del Ku klux klan
Nella maggior parte dei casi le rappresentazioni cinematografiche della violenza bianca spettacolarizzano le rivolte ed esaltano la giustizia sommaria. Nascita di una nazione – il film epico e razzista di D. W. Griffith del 1915, considerato una pietra miliare del cinema statunitense – è un caso eclatante. Nel descrivere i membri del Ku klux klan come eroi americani, il film adotta meccanismi formali, strategie narrative e motivi tematici che mitizzano la violenza della folla contro i neri emancipati. Pur suscitando giudizi controversi già all’epoca della sua uscita nelle sale, Nascita di una nazione riscosse un grande successo.
Per i critici e il pubblico bianco, Griffith non aveva mostrato una rivolta dei bianchi razzisti ma una causa legittima, contribuendo a solidificare il ruolo del Kkk nella società statunitense e ponendo nel frattempo le basi del cinema moderno. L’esaltazione della rabbia bianca è presente anche in film più recenti: Fight club, film di culto del 1999 diretto da David Fincher, elogia la violenza maschile, il vandalismo e il terrorismo dei bianchi. La distruzione delle città apparentemente innocua mostrata in film di supereroi come Man of steel (2013) veicola l’idea secondo cui gli uomini bianchi che scatenano una catastrofe mentre cercano di salvare il mondo sono del tutto giustificati.
Diversamente da Griffith e dai suoi eredi, Spike Lee e gli altri registi neri hanno dovuto descrivere le rivolte navigando i paradossi ideologici di violenza e non violenza, correndo il rischio che le loro opere fossero considerate un incitamento all’inutile rivolta dei neri nel mondo reale. Anche se non esistono né un unico stile formale né un’unica tattica narrativa per parlare della violenza razziale, a questi registi va riconosciuto il merito di aver creato film ruvidi e polifonici che esaminano le forze sociali, politiche e storiche all’origine delle ribellioni. Questi film raccontano l’incuria strutturale, l’alienazione sociale, la povertà istituzionale, l’emarginazione politica e la violenza razzista che hanno colpito le comunità urbane post-industriali. Nella loro rappresentazione delle rivolte la rabbia dei neri non è solo una risposta militante al capitalismo sfruttatore ma anche un’azione contro la brutalità e un catalizzatore del cambiamento.
Tra le vicende che hanno trovato un posto rilevante nell’immaginario culturale ci sono le rivolte scoppiate nel quartiere di Watts, a Los Angeles, nel 1965, quando i residenti afroamericani si ribellarono contro gli abusi della polizia e il razzismo istituzionale. Diversamente dalle rivolte urbane precedenti, i fatti di Watts furono immortalati dalle telecamere delle principali emittenti tv del paese, che mostrarono i neri come persone autolesioniste e ignorarono del tutto le condizioni estreme in cui erano costretti a vivere. Documentari come Burn motherfucker, burn!, realizzato nel 2017 da Sacha Jenkins, raccontano la vicenda soffermandosi sulla copertura mediatica provocatoria delle violenze e dei saccheggi, ma sono i film di finzione girati dai neri a permetterci di comprendere davvero quelle rivolte.
Nella giungla di cemento, film di formazione dei fratelli Albert e Allen Hughes, del 1993, usa la rivolta di Watts come contesto storico per l’analisi della vita dei giovani neri della zona South central di Los Angeles. Nel film i registi hanno inserito immagini di repertorio della rivolta mescolandole con l’acustica delle rivolte scoppiate nel 1992 dopo il pestaggio di Rodney King, creando un’analisi inter-testuale delle circostanze che hanno plasmato l’ambiente in cui vivono i protagonisti.
In un’intervista, Allen Hughes ha spiegato che “il film è stato girato con una prospettiva storica. È il modo in cui abbiamo lavorato, cominciando dalle rivolte di Watts. Raccontiamo al pubblico che la colpa non è nostra, ma che dietro le condizioni attuali esiste una lunga storia. Le rivolte del 1965 sono all’origine della nostra espressione artistica, con tutta la disperazione e tutto lo spargimento di sangue”. Come ha notato l’esperta cinematografica Paula Massood, l’inserimento del protagonista Caine in questo contesto storico ricorda agli spettatori che il ragazzo “è il prodotto del paesaggio urbano e di un particolare insieme di condizioni di vita. È la città a definire Caine, non il contrario”.
Una delle descrizioni più rappresentative delle rivolte dei neri è Freeman - L’agente di Harlem, film realizzato nel 1973 da Ivan Dixon. All’epoca il racconto della rivolta fu così controverso che il film fu ritirato dalle sale poco dopo l’uscita, a quanto pare a causa di pressioni e intimidazioni da parte del servizio di controspionaggio dell’Fbi. Adattamento di un romanzo di Sam Greenlee, il film racconta la storia dell’ex agente della Cia Dan Freeman, che addestra alla guerriglia urbana i Cobra, una banda di ragazzi neri di Chicago, trasformandoli nei Combattenti neri per la libertà di Chicago.
Il film, controverso e anticipatore, immagina una ribellione nazionale che sostiene la violenza come strumento indispensabile per la rivoluzione e la libertà dei neri. La scena della rivolta segue l’omicidio di un ragazzo afroamericano da parte di un poliziotto bianco. Le immagini di automobili e case in fiamme si alternano alle aggressioni degli agenti, che usano i cani e la forza bruta per sottomettere la folla. Posizionando la telecamera al centro del caos, Dixon crea immagini tremolanti che imitano l’estetica della copertura televisiva di disordini come quelli di Watts.
All’epoca i critici bianchi stroncarono il film accusandolo di “violenza insensata”, ma in realtà Dixon era riuscito a immortalare i volti angosciati degli abitanti dei quartieri neri, dimostrando che il vero caos era creato dal trattamento disumano riservato dallo stato agli afroamericani, non dalle rivolte. Dixon fa seguire alle scene di violenza un dialogo tra Freeman e un suo amico, un poliziotto nero, essenziale per contestualizzare la rivolta. Il poliziotto spiega che lui e i suoi colleghi devono mantenere l’ordine pubblico, altrimenti i residenti “tornerebbero nella giungla”. La risposta di Freeman è immediata: “Il ghetto è la giungla. Lo è sempre stato. Non si possono ingabbiare le persone come se fossero animali e pensare che non si ribelleranno mai”. Freeman condanna un sistema in cui la polizia protegge le proprietà e non le vite umane. Con il suo film Dixon, come i fratelli Hughes e Spike Lee dopo di lui, ha messo in evidenza le forze sociali, politiche, economiche e storiche che innescano la rabbia dei neri. In questo modo hanno preso una posizione chiara: quando l’obiettivo è la liberazione, la giustizia e la lotta per l’uguaglianza, allora “chi se ne frega della vetrina”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sull’Atlantic.
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