Questo articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2021 nel numero 1404 di Internazionale.
Vent’anni fa il governo degli Stati Uniti ha lasciato aperta la porta della democrazia, invitando le aziende tecnologiche della California a entrare. Ha anche acceso un bel fuoco nel caminetto per dare il benvenuto. Negli anni seguenti in quelle stanze si è fatta strada una società della sorveglianza: una visione sociale nata dalle esigenze distinte ma reciproche delle agenzie d’intelligence e delle aziende private di internet, entrambe incantate dal sogno di una raccolta totale delle informazioni. Vent’anni dopo le fiamme sono dappertutto, e il 6 gennaio 2021, quando i sostenitori di Donald Trump hanno preso d’assalto il congresso degli Stati Uniti, l’incendio ha minacciato di abbattere la democrazia stessa.
Per quarantadue anni ho studiato il modo in cui le tecnologie digitali sono cresciute fino a diventare una forza economica che guida la nostra trasformazione in una civiltà dell’informazione. Negli ultimi due decenni ho osservato le conseguenze di questa imprevista alleanza politico-
economica, assistendo alla mutazione di quelle giovani aziende in imperi della sorveglianza alimentati da sistemi globali di monitoraggio, analisi, personalizzazione e previsione dei comportamenti che ho chiamato capitalismo della sorveglianza. Forti delle loro capacità di sorveglianza e spinti dalla necessità di accumulare profitti, i nuovi imperi hanno architettato un colpo di stato cognitivo, basato su una concentrazione senza precedenti di informazioni sul nostro conto e sul potere incontrollato che deriva da questo patrimonio di conoscenza.
Nella civiltà dell’informazione le società vengono definite da una serie di questioni relative alla conoscenza: il modo in cui viene distribuita, l’autorità che governa la sua distribuzione e il potere che protegge quell’autorità. Chi è che sa? Chi è che decide chi sa? Chi è che decide chi decide chi sa? Ora i capitalisti della sorveglianza hanno in mano la risposta a ciascuna di queste domande, anche se non li abbiamo mai eletti per governarci. Ed è questa l’essenza del colpo di stato cognitivo. Queste persone rivendicano l’autorità di decidere chi detiene la conoscenza accampando diritti di proprietà sulle nostre informazioni personali, e difendono questa autorità con il potere di controllare sistemi e infrastrutture informativi di cruciale importanza.
Nei suoi aspetti più profondi e terribili, il tentativo di colpo di stato politico messo in atto da Trump dopo le elezioni del 2020 cavalca l’onda di questo golpe nascosto, portato avanti negli ultimi vent’anni dagli “antisocial network” che un tempo consideravamo delle forze di liberazione. Quando si è insediato alla presidenza, il 20 gennaio 2021, Joe Biden ha detto che “la democrazia ha vinto” e ha promesso di ridare al valore della verità il posto che gli spetta nella società democratica. Ma la democrazia e la verità resteranno comunque esposte a un gravissimo pericolo finché non sventeremo l’altro colpo di stato, quello del capitalismo della sorveglianza.
Questo golpe si articola in quattro fasi. La prima è l’appropriazione dei diritti cognitivi, che pone le basi per tutto quello che viene dopo. Il capitalismo della sorveglianza nasce nel momento in cui le aziende scoprono di poter accampare diritti sulla vita delle persone e di poterla usare come materia prima gratuita da cui estrarre dati comportamentali, che diventano una loro proprietà privata.
La seconda fase è segnata dal rapidissimo aumento della disuguaglianza cognitiva, cioè della differenza tra ciò che posso sapere io e ciò che si può sapere di me. Nella terza fase, quella in cui ci troviamo oggi, assistiamo all’avvento del caos cognitivo, causato dall’amplificazione algoritmica finalizzata al profitto e dalla diffusione accuratamente personalizzata di informazioni false, in gran parte prodotte da strategie di disinformazione coordinate. Tutto questo ha conseguenze sul mondo reale, perché frammenta la realtà condivisa, avvelena il discorso sociale, paralizza la politica democratica e a volte produce violenza e morte.
Nella quarta fase l’egemonia cognitiva diventa istituzionale. L’autorità democratica è scavalcata da un’autorità computazionale esercitata dal capitale privato della sorveglianza. Le macchine sanno e i sistemi decidono, diretti e sostenuti dall’autorità illegittima e dal potere antidemocratico del capitale privato della sorveglianza. Ciascuna di queste fasi si fonda sulla precedente. Il caos cognitivo prepara il terreno per l’egemonia cognitiva indebolendo la società democratica, come si è visto chiaramente nell’insurrezione del 6 gennaio.
Viviamo negli anni formativi della civiltà dell’informazione. La nostra epoca è paragonabile alla prima fase dell’industrializzazione, quando i padroni avevano tutto il potere e i loro diritti di proprietà venivano prima di qualunque altra cosa. L’intollerabile verità della situazione attuale è che finora gli Stati Uniti e la maggior parte delle altre democrazie liberali hanno ceduto la proprietà e la gestione del mondo digitale al capitale privato della sorveglianza, che ormai si contende con la democrazia i diritti e i princìpi fondamentali che definiranno il nostro ordine sociale in questo secolo.
L’ultimo anno – segnato dalla pandemia e dall’autoritarismo di Trump – ha aggravato gli effetti del colpo di stato cognitivo, mettendo in luce il potenziale omicida degli antisocial network, anche prima dell’assalto al congresso del 6 gennaio. Forse una maggiore consapevolezza di questo golpe in atto e della minaccia che rappresenta per le società democratiche ci costringerà finalmente a fare i conti con la scomoda verità che incombe su di noi da vent’anni. Possiamo vivere in democrazia o possiamo vivere nella società della sorveglianza, non in entrambi i posti contemporaneamente. Una società della sorveglianza democratica è impossibile a livello sia esistenziale sia politico. Per essere chiari: al centro di questa battaglia c’è l’anima della nostra civiltà dell’informazione. Diamo il benvenuto al prossimo decennio.
L’eccezione della sorveglianza
La tragedia dell’11 settembre 2001 ha trasformato il dibattito a Washington, spostando l’attenzione dalla necessità di approvare leggi in difesa della privacy all’ossessione per la raccolta totale delle informazioni. Le autorità si sono interessate alle tecnologie della sorveglianza che stavano prendendo forma nella Silicon valley. Come ha osservato Jack Balkin, professore di giurisprudenza a Yale, la comunità dell’intelligence avrebbe dovuto “affidarsi al settore privato per raccogliere e generare informazioni” in modo da aggirare vincoli costituzionali, legali o normativi: questioni che oggi sono d’importanza fondamentale. Nel 2013 il direttore della sezione tecnologica della Cia spiegava che la missione del suo ufficio era “raccogliere tutto e conservarlo per sempre”, e riconosceva il ruolo delle grandi aziende del web – tra cui Google, Facebook, YouTube e Twitter, oltre alle compagnie telefoniche – nel renderla possibile. Le radici sovversive del capitalismo della sorveglianza sono inscritte in questa tacita dottrina dell’eccezionalismo della sorveglianza, con cui si aggira il controllo democratico e sostanzialmente si concede alle nuove multinazionali della rete il permesso di carpire l’esperienza umana e rappresentarla sotto forma di dati proprietari.
È stata Google ad aprire la strada, creando una delle lobby più ricche
All’improvviso i giovani imprenditori senza nessun mandato democratico si sono ritrovati con una quantità infinita di informazioni e un potere senza limiti. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno esercitato un controllo assoluto sulla produzione, l’organizzazione e la presentazione delle informazioni mondiali. Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ha avuto il controllo assoluto di quello che sarebbe diventato uno strumento primario per la comunicazione globale e il consumo di notizie. Un po’ alla volta il gruppo si è allargato, mentre una popolazione sempre più vasta di utenti in tutto il mondo era inconsapevole di ciò che era appena successo.
Il permesso di rubare aveva un prezzo, che ha obbligato i dirigenti di queste aziende a dare il loro continuo appoggio a funzionari e politici, nonché a mantenere gli utenti nell’ignoranza o in uno stato di informata rassegnazione. La dottrina era, dopotutto, una dottrina politica, e la sua difesa avrebbe richiesto un futuro di manovre, compromessi, ingerenze e investimenti sul piano politico.
È stata Google ad aprire la strada, creando una delle lobby più ricche del mondo. Nel 2018 quasi metà dei senatori degli Stati Uniti ha ricevuto contributi da Facebook, Google e Amazon, e queste aziende continuano a spendere cifre da record per influenzare la politica.
Fatto ancora più importante, l’eccezionalismo della sorveglianza ha fatto in modo che gli Stati Uniti e molte altre democrazie liberali scegliessero la sorveglianza come principio guida dell’ordine sociale. Così i governi democratici hanno gravemente minato la loro capacità di conservare la fiducia dei cittadini, e reso ancora più giustificabile la sorveglianza.
Caos cognitivo
Per capire la dinamica economica che c’è sotto il caos cognitivo è importante sapere che le attività del capitalismo della sorveglianza formalmente non hanno nessun interesse verso i dati in sé. Tutti i dati sono considerati equivalenti, anche se non sono tutti uguali. Le attività di estrazione procedono con lo zelo di un Ciclope, che consuma voracemente tutto ciò che vede e resta radicalmente indifferente al significato, ai dati di fatto e alla verità.
Andrew Bosworth, dirigente di Facebook, ha mostrato questo ostinato sprezzo nei confronti della verità e del significato in una circolare interna: “Noi mettiamo in collegamento le persone. Il che può essere un bene se ne fanno un uso positivo. Magari qualcuno troverà l’amore. E può essere un male se ne fanno un uso negativo. Magari qualcuno morirà in un attentato terroristico. L’amara verità è che tutto ciò che ci permette di mettere in collegamento più persone con più frequenza per noi è di fatto un bene”. In altre parole, nell’economia della sorveglianza chiedere a un’azienda tecnologica di vietare certi contenuti è come chiedere a una compagnia mineraria di buttare via vagonate di carbone perché è troppo sporco. È per questo che la moderazione dei contenuti è solo l’ultima risorsa, un’operazione di facciata che somiglia ai messaggi di responsabilità sociale delle compagnie petrolifere. Nel caso di Facebook il controllo dei contenuti viene fatto per minimizzare il rischio di perdere utenti o per evitare sanzioni politiche. In entrambi i casi l’obiettivo è aumentare e non diminuire il flusso dei dati. L’imperativo dell’estrazione, combinato con l’indifferenza per il contenuto, produce sistemi che fanno aumentare sempre di più il grado di coinvolgimento dell’utente, senza preoccuparsi di cos’è a coinvolgerlo.
Ora mi soffermerò su Facebook, non perché sia l’unico responsabile del caos cognitivo ma perché è il più grande social network del mondo e perché le conseguenze della sua attività hanno un’estensione maggiore.
I meccanismi economici del capitalismo della sorveglianza hanno generato il Ciclope estrattivo, trasformando Face-book in una gigantesca macchina da guerra pubblicitaria e in un luogo di sterminio della verità. Poi Trump è diventato presidente, e ha preteso il diritto di mentire su vasta scala. Un’economia distruttiva si è fusa con una politica accomodante, e la situazione è infinitamente peggiorata.
Un punto chiave della vicenda è che questa politica accomodante non ha dovuto fare altro che rifiutarsi di attenuare, modificare o eliminare l’amara verità dell’economia della sorveglianza. Gli imperativi economici del capitalismo della sorveglianza hanno trasformato Face-book in una polveriera di disagio sociale. A Zuckerberg è bastato farsi da parte e ritagliarsi un ruolo da spettatore. Rapporti interni dell’azienda risalenti al 2016 e al 2017 hanno dimostrato relazioni di causa-effetto tra gli algoritmi che propongono agli utenti contenuti mirati e il caos cognitivo. L’autrice di una di queste ricerche arrivava alla conclusione che gli algoritmi erano responsabili della diffusione virale di contenuti discutibili che avevano contribuito ad alimentare la crescita di gruppi estremisti in Germania. Aggiungeva che il 64 per cento delle nuove affiliazioni ai gruppi radicali erano dovute all’uso di software di raccomandazione da parte degli utenti: dinamiche che di certo non sono limitate alla Germania.
Nel 2018, quando è scoppiato lo scandalo legato all’azienda di consulenza Cambridge Analytica, il mondo ha improvvisamente visto Facebook in modo diverso, e questo ha offerto l’opportunità per un cambiamento radicale.
L’opinione pubblica ha cominciato a capire che il business della propaganda politica è uno strumento con cui l’azienda dà a noleggio la propria gamma di strumenti per raggiungere utenti mirati, manipolarli e seminare il caos cognitivo, orientando tutta la macchina verso obiettivi politici più che commerciali. Facebook ha lanciato qualche timida iniziativa per affrontare questi problemi, promettendo maggiore trasparenza, un nuovo sistema di controllo delle informazioni e una politica per arginare i “comportamenti falsi coordinati”. Ma la verità è che Zuckerberg ha sempre lasciato libero il campo a Trump e alle sue richieste di accesso incondizionato al flusso sanguigno dell’informazione globale.
Zuckerberg ha rifiutato alcune riforme proposte da dipendenti dell’azienda che avrebbero ridotto il caos cognitivo. Nel settembre del 2019 l’azienda ha dichiarato che le regole del fact checking non sarebbero state applicate alla propaganda politica.
Per placare le polemiche, nel 2018 Zuckerberg ha chiesto a Laura Murphy, ex direttrice dell’ufficio legislativo di Wash-ington della American civil liberties union, di condurre un’indagine sul rispetto dei diritti civili sul social network. Il rapporto, pubblicato nel 2020, è un grido d’allarme pieno di aggettivi come “sconfortato”, “frustrato”, “arrabbiato”, “costernato”, “spaventoso”, “straziante”. Le conclusioni di quel rapporto coincidono con il crollo quasi totale della fiducia dell’opinione pubblica statunitense nei giganti del web. Quando gli è stato chiesto come avrebbe reagito Facebook a un possibile cambio di scenario politico, Nick Clegg, dirigente dell’azienda, ha risposto: “Ci adatteremo all’ambiente in cui ci troveremo a operare”. E così è stato. Il 7 gennaio 2021, quando si è capito che i democratici avrebbero avuto la maggioranza anche al senato, Facebook ha annunciato che avrebbe bloccato a tempo indeterminato l’account di Trump.
L’azienda vuole far credere all’opinione pubblica che i disastrosi effetti del caos cognitivo siano il prezzo inevitabile da pagare per il nostro amato diritto alla libertà di espressione. Non è così. Come i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera sono conseguenza dell’impiego di combustibili tossici, il caos cognitivo è il frutto delle attività commerciali su cui si fonda il capitalismo della sorveglianza, rese ancora più pericolose dalla sudditanza dei politici e messe in moto da un sogno ventennale di totalità dell’informazione che è degenerato in un incubo. Poi sugli Stati Uniti si è abbattuta una pandemia, che ha trasformato le fiamme degli antisocial network in un incendio incontrollato.
Microrganismo misterioso
Già nel febbraio 2020, quando voci e notizie infondate sul covid-19 si diffondevano in rete, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) parlava di “infodemia”, cioè un eccesso di informazioni, non sempre accurate, che rendono difficile orientarsi per la difficoltà di individuare fonti affidabili. A marzo i ricercatori del centro oncologico MD Anderson dell’università del Texas sostenevano che la disinformazione sul coronavirus si stava “diffondendo a una velocità allarmante sui social network”, con gravi rischi per la salute pubblica.
Alla fine di marzo del 2020 il Washing-ton Post riferiva che il 50 per cento dei contenuti pubblicati su Facebook riguardava il covid-19, e a guidare le abitudini di lettura di milioni di persone erano pochi “profili influenti”. Uno studio pubblicato un anno fa dal Reuters institute ha confermato che i politici e in generale le persone con una grande visibilità producevano il 20 per cento della disinformazione nel loro campione, ma attiravano il 69 per cento delle interazioni sui social network in quel campione.
Uno studio pubblicato a maggio dall’Institute for strategic dialogue, un centro studi britannico, ha trovato uno zoccolo duro di 34 siti internet di estrema destra che diffondevano informazioni false sul covid-19 o rimandavano a ben note centrali di disinformazione. Tra gennaio e aprile del 2020 i post pubblici di Facebook con link a questi siti hanno raggiunto ottanta milioni di interazioni, mentre i post che rimandavano al sito dell’Oms hanno avuto solo 6,2 milioni di interazioni, più o meno come i Centers for disease control and prevention, l’ente sanitario statunitense responsabile della salute pubblica.
Uno studio di Avaaz pubblicato ad agosto ha elencato 82 siti che diffondevano informazioni false sul covid-19, raggiungendo quasi mezzo miliardo di visualizzazioni su Facebook nel mese di aprile. Il contenuto dei dieci siti più visitati ha attirato circa 300 milioni di visualizzazioni, in confronto ai 70 milioni di dieci istituzioni sanitarie di alto livello. I modesti sforzi fatti da Facebook per moderare i contenuti potevano ben poco contro i suoi stessi meccanismi, progettati proprio per il caos cognitivo.
A ottobre del 2020 il National center for disaster preparedness, un istituto di ricerca che fa parte della Columbia university di New York, ha fatto una stima del numero di morti per covid-19 che potevano essere evitate. All’epoca gli statunitensi deceduti per la malattia erano 217mila. Lo studio ha concluso che almeno 130mila di quelle morti potevano essere evitate. Tra i motivi c’è anche la disinformazione alimentata dal caos cognitivo.
È questo il mondo in cui ha proliferato un misterioso microrganismo letale. Ci siamo rivolti a Facebook per cercare informazioni. Abbiamo invece trovato strategie letali di caos cognitivo a scopo di lucro.
Terrorismo cognitivo
Nel 1966 Peter Berger e Thomas Luckmann scrissero La realtà come costruzione sociale (Il Mulino 1997), un libro fondamentale. La loro tesi è che la “vita di tutti i giorni” che sperimentiamo come “realtà” viene attivamente ed eternamente costruita da noi stessi. Questo continuo miracolo di ordine sociale si basa sul “sapere del senso comune”, che è “il sapere che condividiamo con gli altri nel corso della normale, autoevidente routine della vita di tutti i giorni”. Pensiamo al traffico: non ci sono abbastanza poliziotti al mondo per assicurarsi che ogni macchina si fermi a ogni semaforo rosso, eppure non vediamo scontri o trattative a ogni incrocio stradale. Questo perché nelle società ordinate tutti sanno che i semafori rossi hanno l’autorità di farci fermare e i semafori verdi ci autorizzano a passare. Questo senso comune fa sì che ciascuno di noi agisca in base a ciò che sappiamo tutti, confidando che gli altri facciano lo stesso. Non stiamo semplicemente ubbidendo alle leggi: stiamo creando ordine insieme. La ricompensa è vivere in un mondo dove generalmente riusciamo a tornare a casa sani e salvi perché ci possiamo fidare del reciproco senso comune, senza il quale nessuna società può funzionare.
“Tutte le società sono costruzioni per affrontare il caos”, scrivono Berger e Luckmann. Dato che le norme non sono altro che compendi del nostro senso comune, la violazione della norma è l’essenza del terrorismo: semina il panico perché sconfessa le certezze sociali che diamo per scontate. “La violazione della norma suscita l’attenzione del pubblico anche al di là dell’obiettivo del terrorista”, scrivevano nel 1984 Alex P. Schmid e Albert J. Jongman in Political terrorism, un testo molto citato sull’argomento. Tutti proviamo lo stesso senso di shock, disorientamento e paura. La legittimità e la continuità delle nostre istituzioni sono essenziali perché ci proteggono dal caos, dando forma ufficiale al nostro senso comune.
Nessuna società può tenere ogni cosa sotto controllo tutto il tempo
La morte del re in una monarchia e il pacifico passaggio di poteri in democrazia sono momenti delicati, in cui la vulnerabilità della struttura sociale è più evidente. Le norme e le leggi che guidano quei processi sono giustamente trattati con la massima serietà. Trump e i suoi alleati hanno condotto una campagna di disinformazione su presunti brogli elettorali che alla fine ha portato alla violenza, prendendo di mira proprio il punto più vulnerabile delle istituzioni democratiche statunitensi e le sue norme più basilari. In questo senso si è trattato di terrorismo cognitivo, espressione estrema del caos cognitivo. La decisione di Zuckerberg di prestare la sua macchina economica a questa causa lo rende complice dell’assalto al congresso.
Nessuna società può tenere ogni cosa sotto controllo tutto il tempo, meno che mai una società democratica. Una società sana ha alla base un consenso generale su ciò che è una deviazione e ciò che è normale. Tutti ci avventuriamo al di là della norma, ma siamo consapevoli di un limite. Altrimenti, come ormai abbiamo imparato, tutto rischia di crollare. I democratici bevono il sangue? Come no. L’idrossiclorochina può curare il covid-19? Certo! Prendere d’assalto il parlamento e instaurare una dittatura di Donald Trump? Sì, siamo pronti!
Man mano che il senso comune si evolve, la società si rinnova. C’è bisogno di istituzioni destinate al dibattito sociale che siano affidabili, trasparenti e rispettose, specialmente quando non siamo tutti d’accordo. Al momento invece siamo nella situazione opposta: da quasi vent’anni il mondo è dominato da un’istituzione politico-economica che agisce come un macchinario a noleggio per la produzione di caos, e in cui la violazione della norma è fondamentale per il profitto.
Gli uomini – non più ragazzi – ai vertici dei social network difendono le loro macchine del caos con una versione distorta dei diritti garantiti dal primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti, che sancisce la libertà d’espressione. I social network non sono una pubblica piazza ma una piazza privata, governata da meccanismi automatici e dai loro imperativi economici, senza la capacità né l’interesse di distinguere il vero dal falso o il rinnovamento dalla distruzione.
Per molti di quelli che considerano la libertà d’espressione come un diritto sacro, l’opinione formulata nel 1919 dal giudice Oliver Wendell Holmes sul caso Abrams contro gli Stati Uniti è una pietra miliare. “Il bene ultimo che desideriamo lo si raggiunge nella maniera migliore grazie al libero commercio delle idee”, scrisse. “La migliore riprova della verità è il potere di un’idea di farsi accettare nella competizione del mercato”. Ma le informazioni false che dominano la piazza privata non emergono da una libera ed equa competizione di idee. Vincono in un gioco truccato. Un gioco a cui nessuna democrazia può sopravvivere.
La facilità con cui stiamo distruggendo il senso comune è indice di una civiltà dell’informazione ancora giovane, ancora vacillante sul terreno della democrazia. Se non interrompiamo l’economia della sorveglianza e non revochiamo la licenza di furto che legittima le sue attività antisociali, l’altro colpo di stato continuerà a rafforzarsi e a produrre nuove crisi. Cosa bisogna fare adesso?
Princìpi per il terzo decennio
Partiamo da un esperimento mentale: immaginate che nel novecento negli Stati Uniti non ci fossero leggi federali a regolare il lavoro minorile o a stabilire dei parametri per i salari, l’orario e la sicurezza dei lavoratori. Che i lavoratori non avessero il diritto di formare sindacati, di scioperare o di negoziare contratti collettivi. Che non esistessero i diritti dei consumatori né istituzioni pubbliche incaricate di supervisionare le leggi e le politiche necessarie a salvaguardare la democrazia mentre le industrie diventavano sempre più potenti. Al contrario, ogni azienda poteva decidere in autonomia quali diritti riconoscere, quali politiche e quali pratiche usare, e come distribuire i suoi profitti. Fortunatamente tutto questo nel novecento non succedeva: quei diritti, quelle leggi e quelle istituzioni sono esistiti, nel corso dei decenni i popoli li hanno introdotti in tutte le democrazie del mondo. Ma anche se queste straordinarie invenzioni sono ancora importanti, non bastano a proteggerci dal colpo di stato cognitivo e dai suoi effetti antidemocratici.
Questa inadeguatezza rispecchia una situazione più ampia: finora gli Stati Uniti e le altre democrazie liberali non sono riusciti a costruire una visione politica coerente del secolo digitale che faccia progredire i valori, i princìpi e la gestione della democrazia. Mentre i cinesi hanno progettato e impiegato le tecnologie digitali per far progredire il loro sistema di governo autoritario, il mondo occidentale è impantanato in compromessi e tentennamenti.
Questa debolezza ha lasciato un vuoto al posto della democrazia, e questo ci ha portato a una situazione pericolosa, una deriva – che dura da vent’anni – verso sistemi privati di sorveglianza e controllo comportamentale che vanno ben oltre i limiti di un sistema di governo democratico. È la strada che conduce alla fase finale del colpo di stato cognitivo. Il risultato è che le nostre democrazie si avviano nude e inermi verso gli anni trenta senza nuove dichiarazioni dei diritti, nuovi statuti giuridici, nuove forme istituzionali che dovrebbero servire a garantire un futuro digitale compatibile con le aspirazioni di una società democratica.
Siamo ancora agli albori della civiltà dell’informazione. Questo terzo decennio è la nostra occasione di dimostrarci all’altezza dei nostri antenati del novecento, costruendo le fondamenta di un secolo digitale democratico. Propongo tre princìpi che possono contribuire a guidarci in questa fase iniziale.
Legalità democratica
Il mondo digitale deve vivere nella casa della democrazia, non come un piromane ma come un componente della famiglia, con le stesse leggi e gli stessi valori da rispettare. Alcune importanti iniziative legislative e giudiziarie in corso negli Stati Uniti e in Europa dimostrano che il gigante addormentato della democrazia finalmente comincia a risvegliarsi. Negli Stati Uniti tra il 2019 e la metà del 2020 il congresso ha discusso cinque disegni di legge esaustivi sul tema, quindici provvedimenti correlati e un’importante proposta con implicazioni concrete per il capitalismo della sorveglianza. I californiani hanno votato per modificare in modo epocale le leggi sulla privacy. Nel 2020 la sottocommissione del congresso sull’antitrust e il diritto commerciale e amministrativo ha pubblicato un’approfondita analisi delle violazioni dei giganti del web. A ottobre il dipartimento di giustizia, insieme a undici stati, ha avviato una causa federale contro Google per violazione delle norme antitrust, accusandola di aver abusato del suo monopolio sulle ricerche online. A dicembre la commissione federale per il commercio ha lanciato un altro procedimento epocale contro Facebook per attività anticoncorrenziali, a cui si è affiancato quello dei procuratori generali di 48 stati.
Le norme antitrust sono importanti per due motivi: segnalano che la democrazia si sta rimettendo in moto e legittimano una maggiore attenzione politica verso le aziende che dominano il mercato. Ma non bastano a sventare il colpo di stato cognitivo. Il ricorso all’antitrust ricorda le concentrazioni di potere economico tipiche dei monopoli di fine ottocento. Come ha spiegato Tim Wu, sostenitore delle leggi antitrust, “la strategia di Facebook è stata simile a quella della Standard Oil di John D. Rockefeller negli anni ottanta dell’ottocento. Entrambe le aziende hanno perlustrato il mercato in cerca di potenziali concorrenti, e poi li hanno o comprati o schiacciati”. Wu aggiunge che “è proprio questo modello di business che il congresso mise al bando nel 1890” con la legge Sherman.
È vero che Facebook, Google, Amazon e altre aziende sono paragonabili ad alcune compagnie del passato, ma concentrarsi solo sul loro potere monopolistico solleva due problemi. Per prima cosa, le norme antitrust non hanno funzionato benissimo, anche dal punto di vista dei politici che le avevano proposte alla fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, per impedire inique concentrazioni di potere nell’industria petrolifera. Nel 1911 una sentenza della corte suprema degli Stati Uniti impose il frazionamento della Standard Oil in 34 diverse compagnie di combustibili fossili. Il valore complessivo di quelle aziende si dimostrò più alto di quello dell’azienda originaria. Le più grandi avevano tutti i vantaggi della Standard Oil a livello di infrastrutture e di scala, e misero subito in atto una politica di fusioni e acquisizioni, creando a loro volta degli imperi, come la Exxon e la Mobil (che poi si fusero nella ExxonMobil), la Amoco e la Chevron.
Poi c’è un problema ancora più grave. È importante ridurre le pratiche anticoncorrenziali, ma questo non basta ad arginare i danni del capitalismo della sorveglianza, così come la sentenza del 1911 non riduceva i danni della produzione e del consumo di combustibili fossili. Invece di guardare Facebook, Amazon e Google da un punto di vista ottocentesco, converrebbe rileggere il caso della Standard Oil in chiave moderna.
Altro esperimento mentale: immaginate che gli Stati Uniti del 1911 fossero già in grado di comprendere, a livello scientifico, il cambiamento climatico. La sentenza della corte suprema avrebbe inciso sul monopolio della Standard Oil, ma avrebbe ignorato un problema molto più importante: il fatto che l’estrazione, il raffinamento, la vendita e l’impiego dei combustibili fossili avrebbero finito per distruggere il pianeta. Se i giuristi e i legislatori dell’epoca avessero ignorato quei dati di fatto, avremmo considerato le loro azioni una macchia sulla storia degli Stati Uniti. In effetti la sentenza della corte suprema ignorò le minacce ben più immediate che incombevano sui lavoratori e sui consumatori degli Stati Uniti. Uno studioso di diritto, Lawrence Friedman, descrive la legge Sherman come “una sorta di truffa” che servì quasi solo a soddisfare certe “esigenze politiche”. Spiega che il congresso “doveva rispondere alla richiesta d’intervento – quale che fosse – contro i monopoli”, e lo fece con quella legge. Allora come oggi, i cittadini volevano che qualcuno uccidesse il gigante.
Si rivolsero alla legge come unica forza che poteva ripristinare l’equilibrio di potere. Ma ci vollero decenni prima che la politica affrontasse le vere radici del male, codificando nuovi diritti per i lavoratori e i consumatori. La legge nazionale sui rapporti di lavoro, che garantiva il diritto a sindacalizzarsi e imponeva una serie di regole ai datori di lavoro, entrò in vigore solo nel 1935, quarantacinque anni dopo la legge Sherman. Ma noi non possiamo aspettare tanto – e neanche venti o dieci anni – prima di affrontare i mali reali del colpo di stato cognitivo e delle sue cause.
Forse ci sono ottime ragioni per smantellare i grandi imperi del web, ma suddividere Facebook o altre aziende simili negli equivalenti della Exxon, della Chevron e della Mobil non ci metterebbe al riparo dai pericoli evidenti e attuali del capitalismo della sorveglianza. Dobbiamo fare di più.
Nuove condizioni, nuovi diritti
Quando cambiano le condizioni di vita servono nuovi diritti. Louis Brandeis, ex giudice della corte suprema statunitense, si impegnò a favore del diritto alla privacy quando cominciò a diffondersi la fotografia, uno strumento che poteva invadere e violare uno spazio fino a quel momento considerato privato.
Una civiltà dell’informazione che voglia dirsi democratica non può progredire senza nuove dichiarazioni di diritti cognitivi che proteggano i cittadini dall’invasione e dal furto su vasta scala messi in atto dall’economia della sorveglianza. Per quasi tutta l’età moderna i cittadini delle società democratiche hanno considerato l’esperienza personale un elemento inseparabile dall’individuo, qualcosa di inalienabile. Ne consegue che il diritto di conoscere la propria esperienza personale è sempre stato considerato un diritto basilare, collegato a ciascuno di noi come un’ombra. Decidiamo singolarmente se e quando la nostra esperienza va condivisa, con chi e a che scopo.
Nel 1967 il giudice statunitense William Douglas affermava che la carta dei diritti – che contiene i primi dieci emendamenti della costituzione statunitense – fu scritta da persone convinte che “l’individuo debba avere la libertà di scegliere in maniera autonoma il momento e le circostanze in cui condividere i suoi segreti con gli altri, e di decidere fino a che punto estendere la condivisione”. Quella “libertà di scegliere” è il diritto cognitivo basilare a conoscere se stessi, la causa da cui discende qualunque forma di privacy.
Un esempio: in quanto detentrice naturale di questi diritti, non voglio dare alla app di riconoscimento facciale di Amazon il diritto di conoscere e sfruttare la mia paura per attività di profilazione e di previsione del comportamento a beneficio di scopi commerciali di altre parti. Il punto non è solo che le mie emozioni non sono in vendita: è che non possono essere vendute perché sono inalienabili. Io non affido ad Amazon la mia paura, ma Amazon se la prende lo stesso, ed è solo l’ennesimo dato tra i mille miliardi che quel giorno vengono dati in pasto alle macchine.
I nostri diritti cognitivi più basilari non sono mai stati sotto attacco come lo sono oggi, per questo non abbiamo ancora una legge che ci difenda, come non abbiamo leggi per tutelare il nostro diritto ad alzarci in piedi, sederci o sbadigliare.
Ma i capitalisti della sorveglianza hanno proclamato il loro diritto di conoscere la nostra vita. È dunque l’alba di una nuova era, che trova fondamento e protezione nella dottrina non scritta dell’eccezionalismo della sorveglianza. Il diritto di sapere i fatti nostri e di decidere chi può saperli – che un tempo davamo per scontato – dev’essere codificato dalla legge e protetto dalle istituzioni, se vogliamo che continui a esistere.
Soluzioni senza precedenti
I danni del colpo di stato cognitivo richiedono soluzioni nuove. È così che la legge si evolve, crescendo e adattandosi da un’epoca storica all’altra. Quando si parla delle nuove condizioni imposte dal capitalismo della sorveglianza, quasi tutto il dibattito normativo si concentra sulla questione dei dati, sulla loro tutela, accessibilità, trasparenza e portabilità, oppure su meccanismi per comprare il nostro consenso per usarli. Discutiamo di moderazione dei contenuti e di “bolle”, i legislatori e i cittadini battono i piedi davanti ai manager recalcitranti.
Le aziende tecnologiche ci vogliono in questa condizione, così infognati nei dettagli del contratto di proprietà da dimenticarci il problema vero: il fatto che la loro richiesta è illegittima.
Quali soluzioni senza precedenti si possono adottare per riparare i danni senza precedenti causati dal colpo di stato cognitivo? Bisogna andare alla radice del problema, cioè all’approvvigionamento, e mettere fine alle attività di raccolta dati della sorveglianza commerciale. È lì che la licenza di furto opera i suoi incessanti miracoli, usando le strategie della sorveglianza per trasformare la paglia dell’esperienza umana – la mia paura, le conversazioni degli altri a tavola, la tua passeggiata nel parco – nell’oro di una riserva di dati di cui si rivendica la proprietà. Abbiamo bisogno di sistemi giuridici che interrompano e mettano fuori legge lo sfruttamento su scala sistematica dell’esperienza umana. Una legislazione che vieti la raccolta dei dati porrebbe fine all’approvvigionamento illegale su cui si basa il capitalismo della sorveglianza. Gli algoritmi di raccomandazione, microtargeting e manipolazione, e i milioni di previsioni di comportamento che sfornano ogni secondo, non possono esistere senza le migliaia di miliardi di dati che gli vengono forniti ogni giorno.
Bisogna eliminare gli incentivi che premiano l’economia della sorveglianza
In secondo luogo, abbiamo bisogno di leggi che leghino la raccolta dei dati ai diritti fondamentali del cittadino e l’uso dei dati ai servizi pubblici, quelli che rispondono alle reali esigenze delle persone e delle comunità. I dati non sono più gli strumenti di una guerra d’informazione che causa vittime innocenti.
Terza cosa: vanno eliminati gli incentivi finanziari che premiano l’economia della sorveglianza. Possiamo proibire le pratiche commerciali che richiedono una forma rapace di raccolta dei dati. Le società democratiche hanno messo fuori legge il mercato degli organi e dei neonati. Il commercio di esseri umani è stato vietato, anche se sosteneva intere economie.
Questi princìpi stanno già plasmando l’azione democratica. Meno di una settimana dopo aver aperto la sua causa contro Facebook, la commissione federale per il commercio statunitense ha cominciato uno studio delle aziende di social network e di video streaming, affermando che intendeva “aprire il cofano” delle loro attività interne per “studiarne attentamente il motore”. Una dichiarazione di tre membri della commissione ha preso di mira le aziende “in grado di sorvegliare e monetizzare la nostra vita personale”, aggiungendo che “in troppe aree di questo settore c’è una pericolosa mancanza di trasparenza”.
Nell’Unione europea e nel Regno Unito sono state presentate proposte di legge che, se approvate, saranno un primo passo per formalizzare quei tre principi. Il sistema europeo imporrebbe un controllo democratico a quella scatola nera delle grandi piattaforme che sono le loro attività interne, un governo che preveda un’ampia autorità di verifica e intervento. I diritti fondamentali e i princìpi della legalità non scomparirebbero più appena varcati i confini del digitale, perché i legislatori insistono su un “ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile”. Nel Regno Unito l’Online harms bill, legge sui danni della rete, introdurrebbe un “dovere di cura” in base al quale le aziende tecnologiche sarebbero responsabili dei danni pubblici. Inoltre la legge creerebbe nuove autorità e poteri d’intervento.
Nel rapporto della sottocommissione antitrust statunitense compaiono due frasi spesso attribuite al giudice Brandeis: “Dobbiamo fare una scelta. Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”. Questa dichiarazione così importante per l’epoca di Brandeis rimane un caustico commento sul vecchio capitalismo che conosciamo, ma non tiene conto del nuovo capitalismo che conosce noi. Se la democrazia non revocherà alla sorveglianza commerciale la licenza di rubare e non ne metterà in discussione le basi economiche e le attività, il colpo di stato cognitivo indebolirà e alla fine altererà la democrazia stessa. Dobbiamo fare una scelta. Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la società della sorveglianza, ma non possiamo avere entrambe le cose. Abbiamo una civiltà democratica dell’informazione da costruire, e non c’è tempo da perdere.
(Traduzione di Martina Testa)
Questo articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2021 nel numero 1404 di Internazionale.
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