Questo articolo è stato pubblicato il 20 agosto 2010 nel numero 860 di Internazionale.
In questa storia è tutto strano. Per cominciare è strano l’aspetto di Julian Assange, fondatore, direttore, volto e guida spirituale di WikiLeaks, il sito che pubblica in rete materiale top secret e riservato. Alto, con un colorito cadaverico, indossa un paio di jeans strappati, una giacca marrone, una cravatta nera e un paio di scarpe da ginnastica malandate. I suoi capelli sono diventati bianchi prematuramente e qualcuno sostiene che somiglia ad Andy Warhol. Ma non ricordo chi lo ha detto, e questo lo farebbe imbestialire. Perché la precisione è tutto. Assange detesta il giornalismo soggettivo. Ho paura che una parte di lui detesti i giornalisti in generale, e che WikiLeaks – che si definisce un “sistema, incensurabile e protetto, di pubblicazione di documenti segreti” – sia essenzialmente un modo per togliere di mezzo degli idioti soggettivisti come me.
Se Assange dovesse scrivere questo articolo si limiterebbe a pubblicare online il discorso un po’ sconnesso che ha tenuto al Centre for investigative journalism della City university di Londra, a cui aggiungerebbe la chiacchierata di dieci minuti che abbiamo fatto mentre andavamo al ristorante e i venti minuti di conversazione a tavola, prima che mi facesse educatamente notare che il tempo a mia disposizione era scaduto. “Devi essere molto prudente quando hai a che fare con notizie di seconda mano su di me”, mi dice. Assange riesce a trovare delle lacune anche in un recente articolo del New Yorker, spaventosamente lungo, dettagliato e verificato, ma in cui l’autore ha fatto una supposizione su una delle sue sostenitrici in base alla maglietta che indossava.
“Il giornalismo dovrebbe somigliare di più alla scienza”, mi dice a tavola. “Per quanto possibile i fatti dovrebbero essere verificabili. Se i giornalisti vogliono garantire alla professione una credibilità a lungo termine, la strada è questa. Bisogna avere più rispetto per i lettori”. Ad Assange piace l’idea di un articolo di duemila parole accompagnato da 25mila parole di fonti, ed è convinto che su internet questo si possa fare.
Assange ha inaugurato wikileaks.org nel 2007, e ha messo a segno dei colpi sorprendenti per un’organizzazione con uno staff ridottissimo e senza finanziatori. Ha pubblicato le prove della corruzione della famiglia dell’ex presidente keniano Daniel arap Moi, ha svelato le procedure standard del carcere di Guantanamo e ha diffuso le email di Sarah Palin. A proiettare WikiLeaks nel grande mondo dell’informazione è stata la pubblicazione, il 5 aprile, del filmato di un raid di un elicottero dell’esercito americano nel luglio 2007 a Baghdad. Nell’operazione furono uccisi diversi civili iracheni e due uomini della Reuters, Saeed Chmagh e Namir Noor-Eldeen.
Vivo dappertutto, come un corrispondente di guerra. O come il capo di una multinazionale
Il video, postato nella versione integrale di 39 minuti e poi montato in un cortometraggio di 18 minuti intitolato Collateral murder, fornisce un ritratto agghiacciante del comportamento dell’esercito statunitense in Iraq, mostrando l’approssimazione nell’individuare gli obiettivi – i piloti dell’elicottero avevano scambiato le macchine fotografiche per fucili –, la facilità con cui viene ucciso un uomo gravemente ferito mentre cerca di mettersi in salvo strisciando e l’indifferenza dei soldati nei confronti di due bambini a bordo di un furgone che arriva per raccogliere i corpi e viene attaccato. “Se portano i bambini in guerra la colpa è loro”, si sente dire da uno dei piloti. “Giustissimo”, risponde con freddezza un commilitone. La mia tesi, pronta a essere smentita da Assange come praticamente ogni altra opinione che mi ero fatto in base alle cose che avevo letto su di lui, è che quello straordinario filmato abbia segnato un momento di trasformazione per WikiLeaks. Proprio quando sto per parlargliene, uno studente barbuto che era alla conferenza s’intromette. “Julian, prima che te ne vai, posso stringerti la mano? Apprezzo sul serio quello che fai. Sei un eroe, davvero”. Si stringono la mano. L’icona e il devoto. Il paragone con Warhol suona sempre più calzante. Assange come impresario di una nuova forma di giornalismo.
Arriva il momento della mia tesi. “Il video di aprile ha cambiato tutto?”, chiedo. È una domanda retorica, perché sono abbastanza sicuro che sia così. “No”, risponde. “I giornalisti hanno sempre bisogno di una scusa per spiegare perché stanno parlando di qualcosa di cui una settimana prima non parlavano. Dicono sempre che è una novità”. Almeno Assange ammette che WikiLeaks sta crescendo rapidamente. All’inizio della conferenza ha detto che la sua testa “in questo momento è piena di cose”, come per scusarsi della natura libera ed esitante della sua presentazione. Piena di cosa? “Negli ultimi sei mesi abbiamo cercato di raccogliere fondi”, spiega, “e per questo abbiamo pubblicato pochissimo. Adesso dobbiamo affrontare una mole enorme di documenti che si sono accumulati. Ci stiamo lavorando, e contemporaneamente stiamo mettendo a punto alcuni sistemi per accelerare il processo di pubblicazione”.
Assange mi spiega che WikiLeaks ha solo cinque impiegati a tempo pieno e altri 40 che “collaborano molto spesso”, aiutati da 800 persone che danno una mano ogni tanto e diecimila sostenitori e donatori: una struttura amorfa e decentrata che in futuro potrebbe fare da modello per altri mezzi d’informazione, quando le cosiddette “fabbriche di giornalismo” diventeranno fuori moda e impossibili da finanziare. È un momento delicato nello sviluppo di quello che Assange preferisce immaginare come un “movimento”. “Abbiamo tutti i problemi di un’organizzazione giovane e in crescita”, racconta. “Ci muoviamo in un ambiente estremamente ostile, per non parlare dei servizi segreti”.
Un milione di dollari
Il pericolo di infiltrazioni da parte degli agenti segreti è alto. “Diventa difficile trovare rapidamente nuovi collaboratori”, spiega, “perché bisogna controllare tutti. La comunicazione interna è complicata dal fatto che ogni cosa deve essere crittata e bisogna organizzare le misure di sicurezza. In più dobbiamo essere pronti a rispondere alle querele”. Il lato positivo è che l’ultima raccolta di fondi ha prodotto un milione di dollari, in maggioranza provenienti da piccole donazioni. Le grandi organizzazioni, invece, si sono tenute alla larga da WikiLeaks. La loro diffidenza è dovuta a sospetti politici, a dubbi sulla legalità della pubblicazione online di materiale segreto e al vecchio vizio dei finanziatori occidentali, pronti a denunciare il malcostume dei paesi in via di sviluppo ma molto meno disposti a fare luce nei cosiddetti paesi del primo mondo.
WikiLeaks è il modello giornalistico del futuro? Assange dà una delle sue risposte evasive. “In tutto il mondo stanno crollando le barriere tra quello che sta dentro a un’organizzazione e quello che sta fuori. Nell’ambito militare il ricorso ai contractor dimostra che la distanza tra l’esercito e il mondo esterno è sempre meno netta. Nel giornalismo succede qualcosa di simile: non è più chiaro cosa ne faccia parte e cosa no. Pensa ai commenti pubblicati sui siti dalle persone comuni e dai fan”.
Il discorso si allontana dal nocciolo della questione, ma lo invito a fare una previsione su come saranno i mezzi d’informazione tra dieci anni. “Per la stampa finanziaria e quella specialistica la situazione rimarrà più o meno uguale, con le riunioni quotidiane per decidere cosa bisogna pubblicare per mandare avanti l’impresa. Per quanto riguarda l’analisi politica e sociale, invece, sarà tutto nelle mani dei network e dei movimenti. Oggi è già così”.
Assange deve preoccuparsi della sua sicurezza personale. Bradley Manning, 22 anni, analista dell’intelligence militare statunitense, è stato arrestato e accusato di aver inviato a WikiLeaks il filmato dell’attacco di Baghdad. Le autorità americane sono convinte che l’organizzazione sia in possesso di un altro video che mostrerebbe un’incursione nel villaggio afgano di Granai, in cui morirono molti civili. Si dice che WikiLeaks sia in possesso di 260mila comunicazioni diplomatiche, e sembra che le autorità vogliano interrogare Assange su questo materiale, perché temono che la pubblicazione metta a rischio la sicurezza nazionale. Alcune fonti collegate alle agenzie di intelligence hanno avvertito Assange, invitandolo a non andare negli Stati Uniti. Lui rifiuta di confermare che Manning sia la fonte del video di Baghdad e sostiene che chiunque l’abbia inviato si è comportato da “eroe”.
Alla conferenza ho sentito un uomo accanto a me che diceva al vicino: “Credi che ci siano spie qui? Gli americani gli stanno addosso, sai”. Naturalmente è possibile. Ma chi tiene una conferenza pubblica davanti a duecento studenti nel centro di Londra non dà l’idea di uno che teme di essere rapito dai servizi segreti. Eppure l’organizzatore della conferenza mi dice che Assange cerca di non dormire mai nello stesso posto per due notti di fila. Gli chiedo se è preoccupato dalle minacce. “Quando cominciano ad arrivare non bisogna sottovalutarle”, risponde. “Alcune persone molto competenti mi hanno detto che c’erano dei problemi seri, ma adesso è stata fatta chiarezza. Le dichiarazioni pubbliche del dipartimento di stato statunitense sono state per lo più ragionevoli. Alcune dichiarazioni private non lo sono state affatto, ma nell’ultimo mese i toni sono cambiati, sono diventati più positivi”.
Nonostante le sue maniere esitanti, Assange trasuda fiducia in se stesso e anche una certa presunzione. Mi dice di non essere sorpreso dalla crescita rapida e dalla recente popolarità di Wikileaks. “Sono sempre stato convinto che l’idea avrebbe avuto successo, altrimenti non ci avrei dedicato il mio tempo e non avrei chiesto ad altre persone di farlo”. Recentemente Assange ha passato molto tempo in Islanda, dove la libertà d’informazione è protetta e il suo progetto ha sostenitori di alto livello. Lì è stato decrittato il video di Baghdad. Assange sostiene di non avere una base. “Sono dappertutto, esattamente come un corrispondente di guerra”, dichiara. “Oppure come il capo di una multinazionale, che deve andare a visitare gli uffici regionali. Abbiamo sostenitori in molti paesi”.
Codice etico
Assange è nato nel Queensland, in Australia, nel 1971 in quella che sembra una famiglia parecchio anticonvenzionale – ma ora mi sto basando su quelle fonti di seconda mano da cui mi ha messo in guardia. I genitori avevano una compagnia teatrale itinerante, e Assange ha dovuto frequentare 37 scuole diverse anche se, secondo alcuni, la madre era convinta che la scuola incoraggiasse la deferenza verso le autorità e l’ha fatto studiare soprattutto a casa. Dopo il secondo matrimonio della madre, è fuggito con lei e il fratellastro, a causa di una lite con il patrigno. Il tutto suona troppo warholiano per essere vero, ma immagino che bisogna fidarsi.
Non c’è tempo per chiedergli della sua storia privata e, anche se ce ne fosse, dubito che sarebbe interessato a raccontarla. In genere le sue risposte sono brevi e un po’ esitanti, e quando gli chiedo se esiste qualcosa che WikiLeaks non pubblicherebbe risponde che “non è una domanda interessante”, con il suo leggero accento australiano. Non aggiunge altro. Non è tipo da sentire il bisogno di riempire il silenzio.
La passione di Assange per i computer risale all’adolescenza, quando è diventato un hacker esperto. Ha formato un gruppo chiamato International subversives, che è riuscito a entrare nel sistema informatico del dipartimento della difesa statunitense. A diciotto anni si è sposato e ha avuto un figlio. Ma il matrimonio è finito e Assange ha dovuto combattere una lunga battaglia per l’affidamento. Quell’esperienza, dicono, ha rafforzato il suo disprezzo per le autorità. C’è anche chi dice che qualcuno nel governo abbia cospirato contro di lui.
A questo punto abbiamo un quadro giornalistico preciso: esperto di computer con un ventennio di esperienza nell’hacking, ostile alle autorità, teorico della cospirazione. La creazione di WikiLeaks a metà dei trent’anni appare una scelta inevitabile.
“I giornalisti vedono una cosa e subito cercano di trovargli una base logica”, spiega Assange. “In generale è così che si fa la storia. Vediamo qualcosa nel presente e cerchiamo di costruire una storia in grado di spiegarla. Ma non è quello che vedo io. Ho qualche competenza, e ho avuto la fortuna di crescere in un paese occidentale avendo accesso a risorse finanziarie e a internet. Poche persone si ritrovano con questa felice combinazione di capacità e possibilità. Oltretutto mi sono sempre interessato a vari livelli di politica, geopolitica e, per quanto possibile, di segretezza”. Non è esattamente una risposta, ma è tutto quello che riesco a ottenere. Ancora una volta ricorda Warhol. Ha un’aria di ricercata indeterminatezza.
Durante la conferenza Assange ha detto di non essere né di destra né di sinistra, e che i suoi nemici cercano continuamente di affibbiargli un’etichetta per screditare la sua organizzazione. Quello che importa prima e più di ogni altra cosa è far sì che le informazioni vengano alla luce. Mi riassume la sua filosofia: “Prima di tutto i fatti, sia chiaro. Poi ci occupiamo di cosa vogliamo farne. Non si può fare niente di significativo se prima non conosciamo la situazione in cui siamo”. Anche se rifiuta le etichette politiche, Assange sostiene che WikiLeaks ha un suo codice etico. “Abbiamo dei valori. Sono un attivista dell’informazione. Diamo informazioni alle persone. Crediamo che una documentazione storica e intellettuale più ricca, completa e accurata sia qualcosa di intrinsecamente positivo, e possa dare alle persone gli strumenti per prendere decisioni intelligenti”. Assange sostiene che una parte esplicita della missione di WikiLeaks consiste nel mettere in evidenza le violazioni dei diritti umani, dovunque siano compiute e chiunque ne sia responsabile.
Assange dice che il progetto di mettere in piedi una piattaforma per informatori, il cui principio fondamentale fosse garantire la sicurezza delle fonti, era la sua vocazione. Gli chiedo se questo sarà sempre lo scopo della sua vita. La risposta mi sorprende. “Ho molte altre idee. Appena WikiLeaks sarà abbastanza forte da farcela senza di me andrò avanti con le altre idee. Adesso potrebbe sopravvivere senza di me, ma non so se sarebbe in grado di crescere”.
WikiLeaks rappresenta una critica al giornalismo convenzionale? Noi giornalisti abbiamo dormito anziché lavorare? “C’è stato un fallimento colossale nel proteggere le fonti”, risponde Assange. “Sono loro che corrono tutti i rischi. Qualche mese fa ero a una conferenza sul giornalismo, ed era pieno di manifesti che spiegavano che dal 1944 sono stati uccisi mille giornalisti. È una cosa terribile. Quanti poliziotti sono stati uccisi dal 1944?”.
All’inizio non capisco e penso che sia rattristato dal fatto che siano morti tanti giornalisti. In realtà sta dicendo il contrario. I giornalisti morti mentre facevano il loro lavoro gli sembrano pochi. “Solo mille!”, esclama. “Quanti di loro sono morti in incidenti stradali dal 1944? Probabilmente 40mila. Muoiono molti più poliziotti, ovvero persone che hanno un ruolo concreto nella lotta al crimine. Loro prendono il lavoro seriamente”. Protesto: “Ma anche i giornalisti prendono il loro lavoro seriamente”. “No, non è vero”, insiste. “Praticamente tutti quelli che sono morti dal 1944 erano stringer in posti come l’Iraq. Sono stati uccisi pochissimi giornalisti occidentali. Penso che sia una disgrazia internazionale che così pochi giornalisti siano stati uccisi o anche solo arrestati mentre facevano il loro lavoro. Quanti giornalisti sono stati arrestati l’anno scorso negli Stati Uniti, un paese di trecento milioni di abitanti? Quanti giornalisti sono stati arrestati in Gran Bretagna?”.
Secondo Assange i giornalisti lasciano che siano altri a correre i rischi e poi si prendono tutto il merito. Hanno lasciato che lo stato, le grandi aziende e i poteri forti la facessero franca per troppo tempo. Oggi c’è una rete di hacker e informatori, chini sui computer, in grado di dare un significato a dati complessi e con la missione di metterli a disposizione di tutti e pronti a fare un lavoro migliore. È un argomento esplosivo e sarei pronto a contestarlo, se non fosse che Assange sta sorseggiando del vino bianco prima di ordinare. Ma una cosa voglio dirla. Il numero di giornalisti uccisi dal 1944 è vicino ai duemila. Ricordiamoci che la precisione, la verifica dei fatti e la presentazione della verità nuda e cruda sono tutto quello che conta nel mondo nuovo dell’informazione.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato il 20 agosto 2010 nel numero 860 di Internazionale.
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