Tiger King, il documentario a episodi di Netflix, comincia con una cifra scioccante: le tigri in cattività negli Stati Uniti sono circa settemila, quasi il doppio delle 3.900 che vivono in libertà. Questi grandi felini sono a rischio di estinzione, costretti a vivere in una minuscola porzione dei loro habitat tradizionali. Allora perché non rimettere le tigri nel loro ambiente naturale?

Potrebbe sembrare una buona soluzione, ma in realtà le cose non sono così semplici. Sono una zoologa e ho fatto ricerche sui grandi felini sia in libertà sia negli zoo, e so che il possibile contributo di queste tigri alla conservazione della specie è molto ridotto.

Il primo problema è che negli Stati Uniti le tigri in cattività vivono per lo più in parchi privati, dove non sono sottoposte a norme rigorose di allevamento e di riproduzione. Per stessa ammissione del proprietario dello zoo di cui si parla in Tiger king, le sue sono tigri “generiche”, cioè sono degli [ibridi nati dall’incrocio di sottospecie diverse](https://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822(18)31214-4).

Dall’Indonesia alla Siberia
Gli habitat delle tigri spaziano dai tropici di Sumatra, in Indonesia, alle temperature sotto zero della valle del fiume Amur in Russia, e per questo gli animali presentano differenze nelle dimensioni, e nel colore e spessore del manto al fine di adattarsi al loro ambiente. Quelli nati dagli incroci rischiano dunque di soffrire le temperature estreme, perché potrebbero essere privi delle caratteristiche specifiche richieste in tali condizioni. Una tigre “generica” potrebbe trovare la giungla di un’isola troppo calda, o la Siberia troppo fredda.

È vero che l’ibridazione può rafforzare la diversità genetica, importante per permettere agli animali selvatici di adattarsi ai cambiamenti climatici e alle malattie. Ma se il loro allevamento avviene al di fuori di regole specifiche, gli animali rischiano di diventare consanguinei: in questo modo la loro diversità genetica si riduce, muoiono prima, hanno difficoltà a riprodursi, e i loro cuccioli hanno meno possibilità di arrivare all’età adulta, oltre a soffrire di problemi di salute.

Le tigri bianche sono state fatte accoppiare tra loro per avere cucciolate dello stesso colore

Le tigri bianche in cattività sono un buon esempio. Si ritiene che la maggior parte di esse discenda da un unico esemplare maschio, Mohan, catturato nel 1951 dal maharaja di Rewa, in India. Mohan fu fatto accoppiare con i suoi cuccioli dando così vita a dei piccoli bianchi. Dal momento che il loro colore dipende da un tratto genetico regressivo – quindi con minori probabilità di essere trasmesso, proprio come i capelli rossi tra gli esseri umani – quelle tigri sono state fatte accoppiare tra loro per aumentare la possibilità di avere altre cucciolate di piccoli bianchi. Oggi la loro consanguineità è molto alta, il che spiega perché abbiano così tanti problemi di salute, tra cui malattie renali.

A scuola di caccia
Ma cosa importa se le tigri messe in libertà sono degli incroci? Non è comunque meglio che rischiare l’estinzione?

Il problema è che gli animali in cattività non hanno mai dovuto cacciare per procurarsi da mangiare e avrebbero quindi bisogno di un certo addestramento per essere autosufficienti e in grado di cacciare selvaggina. Inoltre gli eventuali problemi dovuti alla consanguineità potrebbero compromettere il loro stato di salute e, di conseguenza, la capacità di cacciare.

Se ne avessero l’opportunità, le tigri in cattività sarebbero in grado di uccidere: si tratta di un istinto naturale. Tuttavia ai cuccioli potrebbe essere necessario un anno o più d’addestramento da parte della madre per sviluppare e affinare la capacità d’individuare, braccare, catturare e uccidere la preda, quindi per essere in grado di sopravvivere da soli. Le tigri in cattività, che siano state allattate dai genitori o nutrite con il biberon dagli esseri umani, non hanno comunque ricevuto gli insegnamenti di una madre esperta capaci di trasformarli in abili predatori in un ambiente selvatico.

Gli animali allevati in cattività associano gli esseri umani al cibo e questo può diventare un problema

Anche se forse è possibile addestrare alcune tigri in cattività a diventare efficaci cacciatrici, questo può creare un nuovo problema. In molti zoo privati, come quelli che si vedono in Tiger king, le tigri sono allattate dagli esseri umani affinché crescano a stretto contatto con loro, soprattutto gli esemplari usati a fini d’intrattenimento o per le fotografie dei turisti. Questo contatto riduce negli animali la paura innata degli umani, una paura presente invece in quelli non addomesticati.

Ho lavorato come guida di safari in Sudafrica, dove ho visto come gli animali selvatici si abituino ai veicoli e agli esseri umani, pur rimanendo diffidenti. All’altro estremo, quando ho fatto la guardiana allo zoo, ho osservato animali allevati dagli umani diventare aggressivi nei confronti delle persone.

Se rimesse in libertà, le tigri allevate in cattività potrebbero rappresentare una minaccia maggiore per gli esseri umani e il bestiame rispetto a quelle selvatiche: molto probabilmente assocerebbero le persone al cibo e quindi non cercherebbero di tenersi lontane da villaggi e fattorie. Sfortunatamente strade e campi coltivati si stanno espandendo nell’habitat naturale delle tigri, spezzettandolo in parti sempre più piccole. Perfino nelle foreste più sperdute, dove gli animali potrebbero essere liberati, c’è comunque una qualche presenza umana. Se queste tigri, magari affamate, dovessero incontrare delle persone, gli esiti potrebbero essere disastrosi.

Allevare tigri in cattività è relativamente facile e questo sicuramente può aumentare le loro possibilità di sopravvivenza. Nel peggiore dei casi, si potrebbero reintrodurre in natura felini fatti nascere e allevati per tale scopo. Tuttavia, a lungo termine, è improbabile che gli animali provenienti dagli zoo possano sopravvivere o aumentare il numero degli esemplari selvatici. Se volete che le tigri selvatiche tornino a prosperare, non fate troppo affidamento sugli animali di Tiger king.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Conversation.

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