Discreto, un po’ timido, lo sguardo sempre malizioso, distaccato e con un eterno mezzo sorriso sulle labbra. Era questo Pierre Cherruau, morto domenica 19 agosto, vicino a Bordeaux, alla vigilia del suo quarantanovesimo compleanno, mentre stava soccorrendo il figlio che rischiava di annegare.

Pierre era un mio ex collega del Centro di formazione giornalisti (Cfj) di rue du Louvre, a Parigi, dove ci siamo incontrati all’inizio degli anni novanta. Aveva appena terminato i suoi studi a Sciences-po Bordeaux, una città che portava nel cuore e che finiva inevitabilmente per emergere nei suoi discorsi, una città legata storicamente all’Africa e al mare aperto.

Proprio come lui, che in Africa ha costruito la sua famiglia e dalla quale ha tratto ispirazione per i suoi libri principali. Pierre aveva deciso di ripercorrere con decisione le orme di suo padre, giornalista a Sud-Ouest e corrispondente di Le Monde nel nord del paese (è morto a metà degli anni duemila), con il quale condivideva lo stesso nome di battesimo e la stessa curiosità per il mondo e per gli altri.

Fuori dai sentieri battuti
Dopo il Cfj, Pierre ha vissuto un’esperienza formativa fondamentale in Africa, più precisamente in Nigeria, dove ha lavorato come cooperante, con un incarico nell’est di questo paese enorme, poco conosciuto in Francia. L’esperienza, appassionante ma anche sfiancante, lo aveva vaccinato contro qualsiasi visione esotica del continente. Il suo sguardo lucido, privo d’ingenuità, traspariva chiaramente nelle sue opere, in particolare in un romanzo giallo appassionante e misterioso, Nok en stock (L’Ecailler du Sud, 2004). Il giornalismo era il suo mestiere, ma la scrittura, in tutte le sue forme, era la sua passione. Pierre ha pubblicato una decina di libri e fumetti. Amava citare una frase dello scrittore svedese Henning Mankell: “I mass media ci dicono come muoiono gli africani, ma non come vivono”.

Approfondiva le cose a modo suo, fuori dai sentieri battuti. Si recava in luoghi poco frequentati dai suoi colleghi, come in Guinea- Bissau, una zona grigia dell’Africa occidentale in mano a una giunta militare affarista, dove ha indagato sulle nuove strade della droga tra America Latina ed Europa. Un reportage rischioso, in tutti i sensi: la sua barca era stata sabotata ed era andata alla deriva, costringendolo a sforzi terribili per riprendere la rotta. Ma quella volta c’era riuscito.

L’Africa non l’ha più abbandonato: a Courrier international, dove ha a lungo diretto la rubrica consacrata al continente, e poi a Slate Africa, che ha fondato insieme a Jean-Marie Colombani, e all’interno del quale invitava i lettori ad andare oltre l’orizzonte limitato dell’Africa francofona. All’epoca, quando la Costa d’Avorio usciva con grande fatica dalla crisi postelettorale degli anni 2010 e 2011, ha pubblicato una formidabile intervista al diplomatico sudcoreano Choi, l’uomo che ha certificato l’elezione di Alassane Ouattara a nome delle Nazioni Unite.

Curioso e un po’misterioso
Nel 2013 Pierre era in Mali. Stava raccontando per Mediapart l’elezione presidenziale vinta da Ibrahim Boubacar Keïta sulla scia dell’intervento dell’esercito francese. Tutti i mezzi d’informazione si affannavano a seguire gli ultimi comizi della campagna elettorale dei principali candidati. Non Pierre. Lui era altrove. Un po’ misterioso, la cosa faceva parte del suo fascino.

Una sera, a Bamako, siamo andati a visitare l’ex ministro maliano della cultura, Aminata Traoré: una voce forte, sempre pronta a denunciare i poteri locali asserviti, secondo lei, ai poteri coloniali e alle loro multinazionali. Pierre non condivideva certo tutti i giudizi categorici di Aminata Traoré, ma la rispettava e l’ascoltava, curioso e aperto, pronto a cambiare idea. Curioso, aperto, in guardia ma anche tenace e resistente, da buon corridore di fondo qual’era.

Un giorno aveva deciso di raggiungere la sua famiglia a Dakar in treno, da Bamako. Il treno circolava quando voleva o poteva, quando cioè una forza misteriosa si decideva a metterlo in moto. Ma Pierre non si era perso d’animo, e quando sentiva dire che il treno sarebbe partito, prendeva la sua borsa e correva al binario. Spesso invano, fino a quando non è arrivata la volta buona.

Dopo il Mali nel 2013 si è come volatilizzato. Una sorpresa, alla Pierre Cherruau. Ha avvertito solo alcuni intimi: è ripartito per la Nigeria come responsabile audiovisivo a Lagos, la capitale economica del paese. Nessuno dubitava che questo nuovo viaggio in un paese che tanto lo affascinava gli avrebbe fornito il materiale per un nuovo libro.

Il gusto della libertà
Alla fine della sua opera più personale, forse la più bella, De Dakar à Paris, un voyage à petites foulées (Da Dakar a Parigi, un viaggio a piccoli passi), edito da Calmann-Lévy nel 2013, e frutto dei suoi reportage pubblicati su M, il mensile di Le Monde, Pierre parla molto di suo padre e dei suoi figli. E parla spesso anche di mare, di oceano. L’oceano che se l’è preso questo terribile sabato d’agosto a Soulac-sur-Mer, mentre soccorreva Almami, suo figlio di dieci anni, preso da una brutta corrente dalla quale alla fine è uscito indenne. Nell’ultimissima parte di questo libro Pierre Cherruau cita il poeta spagnolo Antonio Machado:

Viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando (…)
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.

E poi queste parole, rivolte ai suoi figli, come se avesse il presentimento che bisognasse dirle velocemente, perché non si sa mai quel che può accadere: “Se potrò anche solo trasmettere ad Almami e a Maria questo gusto per la libertà, la mia corsa non sarà stata vana”. Pierre era, senza dubbio, un uomo libero. Nel suo pensiero, nelle sue camminate sul lungomare di Dakar o sulle belle spiagge della regione Nord-Pas-de-Calais, dov’era nato nell’agosto 1969.

Libero nei suoi scritti come nella sua vita.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

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