Nel mondo, Israele è il paese che finora ha somministrato più vaccini in proporzione alla popolazione. Questo lo rende un laboratorio a cielo aperto osservato con attenzione dagli altri paesi.

Quante persone sono state vaccinate in Israele?
Tra il 19 dicembre 2020, giorno del lancio della campagna vaccinale, e il 29 gennaio 2021 circa tre milioni di israeliani hanno ricevuto una dose del vaccino. Nel dettaglio, quasi il 32 per cento delle persone ha ricevuto la prima dose e il 18 per cento ha avuto la seconda. Una progressione molto più rapida rispetto agli altri paesi, anche se non tutti hanno cominciato nello stesso momento. Secondo le proiezioni di Our world in data, gli Emirati Arabi Uniti hanno vaccinato il 29 per cento della popolazione, il Regno Unito il 12 per cento e la Francia il 2 per cento.

Perché Israele è così avanti?
Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la questione è politica. Criticato per la gestione iniziale della crisi sanitaria, ora Netanyahu vuole guadagnare popolarità in vista delle elezioni legislative di marzo.

Secondo un contratto pubblicato parzialmente il 17 gennaio, Israele si è impegnato a fornire al laboratorio statunitense Pfizer dati rapidi sugli effetti del vaccino su larga scala in cambio di una fornitura abbondante di vaccini. Il paese ha firmato un contratto anche con la Moderna, le cui prime dosi sono state consegnate all’inizio di gennaio.

In passato Israele era già stato un terreno di valutazione per altri vaccini, in collaborazione con i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti. Inoltre, mentre l’argomento crea divisioni in Francia, Israele sta prendendo in considerazione la creazione di un passaporto verde che permetta a chi è stato vaccinato di viaggiare più liberamente.

Qual è la strategia vaccinale di Israele?
Israele ha scelto di vaccinare prima gli operatori sanitari e le persone più vulnerabili (anziani, malati e persone con altre patologie). Recentemente la vaccinazione è stata allargata ai cittadini con più di 40 anni e agli adolescenti tra i 16 e i 18 anni. Nel paese il servizio militare è obbligatorio una volta compiuti i 18 anni e dura due anni.

Questa campagna di vaccinazione si poggia su un sistema di copertura sanitaria universale pubblica molto avanzato sul piano digitale e con infrastrutture efficaci. L’organizzazione è strutturata intorno a quattro fondi sanitari: Clalit (il più grande fornitore di cure), Maccabi, Meuhedet e Leumit. Ognuno ha aperto rapidamente centri vaccinali e ha contattato i suoi assistiti per fissare gli appuntamenti.

Per ottenere il vaccino è richiesta una carta d’identità israeliana. I 4,5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza sono esclusi dal programma vaccinale (il 31 gennaio Israele ha annunciato di voler fornire cinquemila dosi di vaccino contro il covid-19 ai palestinesi). Secondo Netanyahu, in virtù degli accordi di Oslo solo l’Autorità Palestinese è competente in materia di sanità. Questa politica è stata giudicata “inaccettabile” dalle Nazioni Unite e fortemente criticata dalla sinistra israeliana.

Quali sono i primi risultati?
Alla metà di gennaio un comunicato del fondo Clalit ha annunciato un calo del 33 per cento del tasso di contagio, quattordici giorni dopo la somministrazione delle prime dosi del vaccino. È una percentuale lontana dal tasso di protezione del 52,4 per cento previsto dalla Pfizer-Biontech. Questi risultati sono stati osservati su due gruppi di 200mila pazienti. Come ha precisato il British Medical Journal il 21 gennaio, i dati preliminari si basano su una popolazione di età superiore a sessant’anni, diversamente dagli studi della Pfizer che avevano incluso persone più giovani.

I dati raccolti dopo la somministrazione della seconda dose del vaccino sono più significativi. Sulla base di un gruppo di 600mila persone, il ministero della salute ha parlato alla metà di gennaio di una riduzione del 50 per cento dei contagi, come riporta il Times of Israel.

Più recentemente, il 28 gennaio, Maccabi ha assegnato un’efficacia globale del 92 per cento al vaccino della Pfizer-Biontech tra le persone che lo hanno ricevuto. I dati provengono dalla “prima grande indagine sul funzionamento del vaccino al di fuori degli studi clinici”, scrive il Times of Israel. Su 163mila persone che hanno ricevuto le due dosi, solo 31 hanno contratto il covid-19 “nei primi dieci giorni di protezione massima”. Un risultato incoraggiante, vicino al 95 per cento di efficacia osservato durante gli studi clinici della Pfizer.

Secondo Michael Edelstein, epidemiologo e professore di salute pubblica all’università Bar-Ilan di Tel Aviv, questi primi bilanci, ancora da confermare, sono positivi: “Tra le persone con più di sessant’anni registriamo risultati molto incoraggianti, come una diminuzione delle infezioni del 50 per cento dopo un’unica dose, una riduzione del 60 per cento del numero di ricoveri e un numero di casi molto ridotto tra chi ha ricevuto le due dosi di vaccino. I dati confermano la grande efficacia suggerita dagli studi clinici”. Lo stesso ottimismo emerge dalle parole di Antoine Flahault, direttore dell’Istituto di sanità globale della facoltà di medicina dell’università di Ginevra: “L’esperienza israeliana conferma l’efficacia importante del vaccino a Rna messaggero della Pfizer-Biontech dopo la prima dose, quindici giorni dopo la somministrazione, ma anche la sua eccellente tolleranza”.

Perché questi risultati sono difficili da interpretare
Ci sono però alcuni potenziali problemi. Come afferma Michael Edelstein, i dati sull’efficacia della campagna vaccinale provengono in gran parte da comunicati stampa, non da studi scientifici con dati completi per valutarne la solidità. “Questo rappresenta una mancanza di trasparenza da parte delle organizzazioni, che tuttavia hanno annunciato che gli studi sono in fase di preparazione. Considerando l’importanza dei dati è logico che siano condivisi al più presto possibile prima della pubblicazione”, dice. Ma le incognite restano numerose. “Siamo ancora a metà del guado”, sottolinea Flahault. “Resta da verificare in che misura il vaccino permetterà di rallentare il corso della pandemia nel paese, di tornare a una vita sociale normale e di diminuire la mortalità legata al covid-19, e se sarà efficace contro le nuove varianti che circolano nel paese. Lo sapremo solo nei prossimi mesi”.

Tra l’altro Israele è in lockdown dal 27 dicembre. In queste condizioni, sottolinea Edelstein, “è complicato separare gli effetti dell’isolamento da quelli del vaccino e della presenza della variante cosiddetta britannica, che compare in una grande percentuale dei casi nel paese”. Secondo Flahault, la ripresa progressiva del controllo sulla pandemia è “dovuta agli effetti dell’isolamento” più che a quelli del vaccino. Infine le varianti complicano le cose. La campagna vaccinale israeliana è partita quando ha cominciato a diffondersi la variante cosiddetta britannica, più contagiosa. Il 25 gennaio il coordinatore nazionale per la lotta contro la pandemia, Nachman Ash, ha sottolineato che la nuova variante era responsabile di più della metà dei nuovi casi. Le mutazioni “ci fanno fare un passo indietro nella gestione della malattia”, ha detto Ash.

Quale impatto ci sarà sulla progressione dell’epidemia?
A breve termine la situazione non è cambiata, perché “molte persone sono state contagiate tra la prima e la seconda dose del vaccino”, ha precisato Ash. Israele ha vissuto l’ondata epidemica più letale a gennaio, quando 2,3 milioni di persone avevano già ricevuto la prima dose di vaccino. Tuttavia il 40 per cento dei nuovi casi è composto da bambini, per i quali il vaccino non è stato nemmeno omologato. Gli effetti attesi dovrebbero manifestarsi a quindici giorni dalla seconda iniezione. “Le autorità israeliane scommettono su effetti significativi della loro campagna di vaccinazione a partire da marzo”, spiega Flahault

Questa vaccinazione massiccia può portare alla comparsa di una “variante israeliana”?
Il timore di una variante in grado di sfuggire alla protezione vaccinale è reale, ha scritto il Jerusalem Post il 24 gennaio. Davanti all’immunità di gregge acquisita dal paese, solo le nuove varianti del sars-cov-2 resistenti al vaccino sopravviverebbero alla campagna vaccinale.

Tuttavia Sharon Alroy-Preis, direttrice della salute pubblica nel ministero della sanità israeliano, dice che al momento “non è nota nessuna mutazione israeliana significativa”. Non esclude, però, che in futuro possa succedere. A quel punto, come con l’influenza stagionale, servirebbe una nuova vaccinazione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Le Monde.

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