La seconda stagione di Serial comincia con diversi riferimenti che ci sono familiari. C’è la pubblicità di MailChimp, la stessa che è diventata uno spot di culto nella prima stagione. Il pianoforte fa sempre da base della sigla del podcast, che però è stata remixata con più fiati e con l’aggiunta di una tastiera elettrica verso la fine della puntata. C’è perfino un breve cameo di Donald Trump, perché nel 2015 una trasmissione statunitense non può dirsi completa senza di lui.
E poi c’è la conduttrice Sarah Koenig che con la sua narrazione diretta, descrittiva eppure sempre vagamente scettica ha dato il tono a tutta la prima stagione, che è diventata il podcast più ascoltato di tutti i tempi e ha generato una rinascita dell’audio digitale.
Koenig comincia la seconda stagione con una lunga descrizione di un video di combattenti taliban che liberano il soldato statunitense Bowe Bergdahl, tenuto prigioniero in Afghanistan per cinque anni. “La portiera del sedile posteriore del veicolo è aperta”, dice la conduttrice, con la sua voce da radio pubblica che ha ispirato diverse parodie. “Un uomo pelato è seduto con le ginocchia piegate e i piedi appoggiati sul sedile davanti a sé. La videocamera avanza e inquadra un giovane pallido. È Bergdahl. È rasato. Sembra quasi un famoso leader di un film degli anni settanta”.
Quando la puntata è andata in onda, il sito è stato inaccessibile per un po’ perché tutti la stavano scaricando
Mentre la prima stagione ha indagato su un misterioso delitto del 1999, la seconda racconta una storia nota e più recente: Bergdahl è stato dichiarato disperso nel giugno del 2009, mentre prestava servizio in Afghanistan, è stato fatto prigioniero dai taliban ed è tornato in patria nel maggio del 2014, quando è stato scambiato con cinque prigionieri detenuti dagli Stati Uniti a Guantanamo. Le circostanze della sua cattura sono sempre state oscure e a giugno del 2015 Bergdahl è stato accusato di diserzione, un crimine passibile di pena capitale.
Quindi il mistero di questa stagione è: cosa aveva in mente Bergdahl? E la sorpresa è che Serial gli ha chiesto di spiegare proprio questo, partendo dalle circa 25 ore di interviste telefoniche concesse dal militare a Mark Boal, uno dei fondatori della casa di produzione Page One, che sta lavorando a un film sulla storia e collabora con Serial per questa stagione. Si tratta delle prime dichiarazioni pubbliche di Bergdahl, ancora in attesa di giudizio da parte delle autorità militari, da quando è stato liberato.
Nel primo episodio, Dustwun, l’intervista di Boal sembra piuttosto fredda in confronto alle conversazioni di Koenig con il protagonista della prima stagione Adnan Syed, un uomo condannato per omicidio. Tuttavia anche in questo caso si percepisce l’autenticità dell’audio registrato al telefono. Il tono di Boal è diverso da quello di Koenig, a volte irritante: il produttore interrompe Bergdahl più di una volta. Però è stato lui a convincere il militare a parlare, ed è questo quello che conta. Sarà interessante scoprire se Boal verrà presentato più come un conduttore o come uno dei personaggi.
L’esistenza di queste registrazioni rischia di svelare subito il mistero. Scopriamo molto presto cosa aveva in mente Bergdahl quando si è allontanato dall’avamposto di Mest Malak, nella provincia di Paktika, nell’Afghanistan orientale. Bergdahl dice che gli ufficiali della sua unità erano incompetenti e che aveva deciso di informare i loro superiori. Quando si è allontanato dall’avamposto, spiega, si è diretto verso la base dell’unità, a una trentina di chilometri di distanza. “Stavo cercando di risolvere il problema”, dice Bergdahl a Boal, come se incamminarsi disarmato nel deserto fosse stata la sua unica possibilità.
L’episodio fornisce altri dettagli sulla cattura di Bergdahl, e sul sito della trasmissione c’è una mappa della zona compresa tra l’avamposto e la base che merita decisamente un’occhiata. Ma in sintesi questa puntata serve solo a delineare il contesto di quello che sarà trasmesso nel corso dei prossimi episodi, compresa un’intervista ad alcuni combattenti taliban, come annuncia un divertente teaser alla fine dell’episodio.
Koenig ha capito che il mistero di quello che Bergdahl aveva in mente non basta a reggere l’intera stagione come era stato nella prima, in cui il tema centrale era la colpa o l’innocenza di Syed. Naturalmente in questa storia si nasconde più di quel che Bergdahl dichiara, e speriamo che tutto venga alla luce nelle prossime puntate (dodici in totale). Tuttavia, è chiaro che Koenig sta cercando di allestire un dramma di più ampio respiro quando si lancia in questa metafora:
A un certo punto, dopo aver isolato tutti i vari filoni della storia di Bowe e dopo aver condotto lunghe interviste su di lui, su quel che ha fatto e sulle conseguenze delle sue azioni, mi è tornato improvvisamente in mente un libro per ragazzi che leggevo assieme ai miei figli. Si intitola Zoom, e non ha parole, solo figure. Comincia con una serie di forme rosse appuntite, poi nella pagina successiva si scopre che quelle forme sono una cresta di gallo. Nella pagina dopo l’inquadratura si allarga e si vede che il gallo è appollaiato su uno steccato e che due bambini lo stanno guardando. Girando la pagina, la scena si allarga ancora e si vede una fattoria, poi si allarga sempre di più e si capisce che tutto quanto (il gallo, i bambini, la fattoria) sono giocattoli con cui sta giocando un altro ragazzino, e che tutta la scena è in realtà una pubblicità su una rivista, che la rivista sta sulle gambe di una persona che sonnecchia su una sdraio e così via. L’inquadratura si allarga e si allarga ancora, l’immagine si amplia sempre di più finché i primi dettagli sono così lontani da diventare invisibili. La storia di Bowe Bergdahl è così. Un ragazzo un po’ particolare prende una decisione drastica all’età di 23 anni e comincia a camminare da solo in una zona dell’Afghanistan, e le conseguenze di questa decisione si espandono a macchia d’olio. E a ogni svolta ci si stupisce nel vedere che il quadro è cambiato. Per farsi un’idea di tutta la situazione bisogna approfondire i dettagli più minimi della vita di una persona e anche avere una visione molto ampia della guerra in Afghanistan.
È una spiegazione eloquente della natura della narrazione e delle qualità di Serial. Queste parole di Koenig sono anche state il momento che più ha definito lo stile del podcast da quando è nato: tanto accattivante da sembrare addirittura una parodia di se stesso.
Il successo della prima stagione rappresenta una fonte di pressione sulla seconda. Non è un caso se quando Dustwun è andata in onda, alle sei del mattino sulla costa orientale degli Stati Uniti, per un po’ di tempo il sito della trasmissione è stato inaccessibile a causa di tutte le app per podcast che stavano cercando di scaricare il file in contemporanea. Ma sarebbe più giusto giudicare la nuova stagione in base ai suoi meriti.
Da quando la prima stagione è finita un anno fa, sembra che il podcast si sia sviluppato come mezzo espressivo, e Serial non è più l’unico esempio di narrazione audio d’alta qualità a episodi. Anche Serial si è sviluppato, e adesso ci lavorano più persone, tra cui un responsabile dei rapporti con gli ascoltatori – oltre a un sito nuovo e luccicante e ad altri sponsor (Squarespace e Audible, due veterani delle pubblicità su podcast, si sono uniti a MailChimp per questa stagione, probabilmente a tariffe molto superiori a quelle della volta precedente). Un’altra novità è che ora la dolce Koenig si è messa a imprecare: ha detto “cazzo” e ha anticipato che anche le registrazioni di Boal saranno volgari.
Per scoprire dove andrà a parare, dovremo ascoltare qualche altra puntata. Per il momento non si è ancora parlato davvero di Bergdahl: al centro del discorso c’erano Serial e il suo vero mistero, cioè se anche questa volta sarà un grande successo.
(Traduzione di Floriana Pagano)
Questo articolo è stato pubblicato su Quartz.
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