Quando il vaccino contro la poliomielite fu dichiarato sicuro ed efficace, la notizia fu accolta con grandi manifestazioni d’esultanza. Le campane delle chiese e le sirene delle fabbriche suonarono in tutti gli Stati Uniti. “La poliomielite sarà sconfitta”, titolarono i giornali. “Una vittoria storica”, “monumentale”, “sensazionale”, esclamavano i giornalisti. La gente esplose di gioia: alcuni ballavano nelle strade, altri piangevano. I bambini uscirono da scuola prima per festeggiare.
Ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di simile anche con l’approvazione dei vaccini contro il covid-19, specialmente dopo un terribile anno di pandemia. Ma non è stato così. Il ritmo costante delle buone notizie sui vaccini è stato accolto con implacabile pessimismo. Il problema non è che le notizie non vengono date né che dovremmo già rinunciare del tutto alla prudenza. Il problema è che né le notizie dei giornali né i messaggi delle autorità sanitarie hanno rispecchiato la realtà davvero sorprendente di questi vaccini.
Non c’è niente di sbagliato nel realismo e nella cautela, ma una comunicazione efficace richiede senso delle proporzioni, deve distinguere tra il giusto allarme e l’allarmismo, trovare un equilibrio tra la prudenza e l’evocazione della fine del mondo, la descrizione degli scenari peggiori e l’annuncio dell’imminente arrivo di una catastrofe. Dobbiamo essere in grado di accogliere con gioia le notizie positive, senza dimenticare il lavoro che abbiamo ancora davanti.
Da quando sono stati messi a punto i vaccini, al posto di un equilibrato ottimismo sono stati rovesciati sull’opinione pubblica i timori per le nuove varianti del virus, i dibattiti fuorvianti sull’inferiorità di alcuni prodotti rispetto ad altri e i lunghi elenchi di cose che chi è vaccinato non può ancora fare, mentre i mezzi d’informazione si chiedono se la pandemia finirà mai.
Questo pessimismo sta prosciugando le energie necessarie per superare l’inverno e il resto di questa pandemia. I gruppi contrari alla vaccinazione e quelli che si oppongono alle attuali misure di salute pubblica hanno amplificato i messaggi pessimistici, in particolare l’idea che vaccinarsi non significa poter essere più liberi. Dicono che non ha senso adeguarsi alle regole o farsi vaccinare, perché non produrrà alcun cambiamento positivo. Stanno sfruttando questo momento per lanciare messaggi che mirano ad aumentare la sfiducia nei confronti delle autorità sanitarie, accusandole di spostare continuamente i paletti e lasciando intendere che ci stanno prendendo in giro: o i vaccini non sono buoni come dicono, insinuano queste persone, o il vero obiettivo delle restrizioni è controllare la popolazione.
Si è scelto di proporre linee guida fisse che davano un falso senso di precisione
Cinque errori fondamentali hanno influito sulla comunicazione delle autorità sanitarie e quindi anche sui mezzi d’informazione, svolgendo un ruolo decisivo nel far fallire la risposta alla pandemia. Questi errori sono stati aggravati dagli atteggiamenti che l’opinione pubblica ha sviluppato per affrontare una situazione così incerta. E ora, anche se i vaccini offrono una grande speranza e anche se, almeno negli Stati Uniti, non c’è più un disinformatore alla guida del paese, alcune autorità e i mezzi d’informazione stanno ripetendo gli stessi errori con il piano vaccinale.
La pandemia ci ha sottoposti a uno stress test sociale, rivelando le crepe e i punti deboli delle nostre istituzioni e dei nostri sistemi. Alcuni di questi punti deboli sono la causa di molti problemi attuali, compresi quelli della politica. Altri sono più specifici della sfida attuale, anche se non esclusivi, come il divario tra il modo in cui funziona la ricerca accademica e il modo in cui l’opinione pubblica la percepisce, e il fatto che il meccanismo psicologico che ci aiuta ad affrontare la pandemia ha distorto la nostra risposta alla pandemia stessa. Conoscere queste dinamiche è importante, non solo per superare il periodo attuale, ma anche per capire come funziona la nostra società e dove sbagliamo. Dobbiamo cominciare a rafforzare le nostre difese, sia contro future pandemie sia contro le numerose sfide politiche, ambientali, sociali e tecnologiche che abbiamo davanti.
Nessuno di questi problemi è irrisolvibile, ma prima bisogna conoscerli e cominciare a lavorare per risolverli, perché non c’è molto tempo. Gli ultimi dodici mesi sono stati incredibilmente impegnativi per quasi tutti. Le autorità sanitarie hanno dovuto combattere una pandemia devastante (e negli Stati Uniti un’amministrazione decisa a sabotare i loro sforzi). L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) non è strutturata né ha i fondi per essere indipendente o agile, ma ha comunque lavorato sodo per contenere la malattia.
Molti ricercatori ed esperti hanno criticato le autorità per la mancanza di linee guida tempestive e affidabili e hanno cercato di colmare il vuoto comunicando direttamente le loro scoperte attraverso i social network. I giornalisti hanno cercato di tenere aggiornate le persone nonostante i vincoli di tempo e di competenza, aggravati dal peggioramento del mondo dell’informazione. E tutti noi abbiamo tentato di sopravvivere come meglio potevamo, cercando indicazioni dove potevamo e condividendo informazioni quando potevamo, ma sempre in condizioni difficili e confuse.
Nonostante queste buone intenzioni, gran parte dei messaggi sulla salute pubblica è stata estremamente controproducente. Le decisioni delle autorità, le scelte dei mezzi d’informazione tradizionali, il modo in cui funziona il dibattito pubblico su internet e i modelli di comunicazione tra la comunità accademica e l’opinione pubblica si sono rivelati sbagliati per cinque motivi.
La compensazione del rischio
Una delle cose che hanno danneggiato di più la risposta alla pandemia è stata la sfiducia e il paternalismo delle autorità e degli esperti di sanità nei confronti della popolazione. Alla base di questo atteggiamento c’è il timore di una reazione imprudente delle persone a misure prese per aumentare la loro sicurezza, come le mascherine, i test rapidi e i vaccini. Alcuni esperti temevano che un maggior senso di sicurezza avrebbe spinto la gente a correre rischi che non solo avrebbero danneggiato i progressi, ma avrebbero fatto fare dei passi indietro.
La teoria secondo cui le misure studiate per la sicurezza potrebbero darci un falso senso di sicurezza e spingerci a comportamenti imprudenti è accattivante: è controcorrente e ingegnosa, e si adatta bene a dichiarazioni del tipo “ecco la cosa sorprendente che noi persone intelligenti abbiamo pensato”. Sono dichiarazioni che piacciono tanto alle persone che si considerano furbe. Non c’è da stupirsi se questo atteggiamento ha accompagnato molti altri tentativi di convincere le persone ad adottare una novità in materia di protezione, per esempio le cinture di sicurezza delle automobili, i caschi e i preservativi.
Ma spesso i numeri raccontano una storia diversa: anche se i progressi della sicurezza spingono qualcuno a comportarsi in modo sconsiderato, i benefici superano gli effetti negativi. La maggior parte delle persone è interessata già in partenza a proteggersi da un pericoloso agente patogeno. Inoltre, anche all’inizio della pandemia la teoria sociologica prevedeva che indossare le mascherine sarebbe stato associato a una maggiore aderenza ad altre misure precauzionali, e la ricerca empirica l’ha confermato rapidamente. Purtroppo, però, la teoria della compensazione del rischio e le sue premesse implicite continuano a ripercuotersi sul nostro atteggiamento verso la pandemia, anche perché non c’è mai stata una riflessione sui passi falsi iniziali.
Regole invece di spiegazioni
In genere le autorità hanno preferito dare una serie di regole che risultassero chiare a tutti invece di spiegare nei dettagli i meccanismi di trasmissione del covid-19. Puntare sulla spiegazione dei meccanismi di trasmissione e aggiornare le informazioni sul contagio avrebbe aiutato le persone a fare calcoli informati sui rischi che correvano in diversi contesti. Invece si è scelto di proporre linee guida fisse che davano un falso senso di precisione.
All’inizio negli Stati Uniti è stato detto alle persone che avere un “contatto ravvicinato” significava stare a meno di due metri da un individuo infetto per almeno 15 minuti. Questo messaggio ha portato la gente a giocare in modo ridicolo con le regole. Alcuni locali facevano spostare i clienti al quattordicesimo minuto per evitare di superare quella soglia. Ha anche spinto le persone che lavoravano al chiuso con altre, ma a distanza di due metri, a pensare di potersi togliere la mascherina. Niente di tutto questo aveva senso. Cosa succedeva al sedicesimo minuto? Due metri e dieci andavano bene? La falsa precisione non è più informazione.
Ha complicato la situazione il fatto che le principali autorità sanitarie hanno tardato a riconoscere l’importanza di alcuni meccanismi chiave dell’infezione, come la trasmissione tramite aerosol. E anche quando l’hanno fatto, il cambiamento è avvenuto senza una proporzionale modifica delle linee guida e dei messaggi: è normale che al grande pubblico ne sia sfuggito il significato.
Frustrata dalla mancanza di comunicazione delle autorità sanitarie, nel luglio del 2020 ho scritto un articolo su ciò che allora si sapeva sulla trasmissione del
covid-19, compresa quella tramite aerosol (“Apriamo le finestre”, Internazionale 1373). Il virus può fluttuare nell’aria e accumularsi negli spazi chiusi scarsamente ventilati. Ancora oggi mi contattano persone che descrivono ambienti di lavoro formalmente in linea con le regole, ma in modi che sfidano il buonsenso: sono stati installati pannelli di plexiglass, ma i dipendenti non possono aprire le finestre; è obbligatorio portare le mascherine, ma solo quando ci si trova a meno di due metri l’uno dall’altro, ed è permesso togliersele al chiuso durante le pause.
Forse la cosa più grave è che i messaggi e le linee guida hanno sorvolato sulla differenza tra spazi esterni e interni. In questi ultimi, data l’importanza della diffusione tramite aerosol, non dovrebbero essere applicate le stesse precauzioni. Questo è fondamentale, perché abbiamo a che fare con un agente patogeno superdiffuso, e gran parte della diffusione è determinata da pochi individui che ne infettano molti altri contemporaneamente, mentre la maggior parte delle persone non trasmette affatto il virus.
Dopo aver scritto un articolo (Internazionale 1382) in cui spiegavo che la superdiffusione era una delle cause principali della pandemia, ho scoperto che anche questo meccanismo era stato spiegato male. Sono stata sommersa da messaggi di persone, compresi alcuni politici di vari paesi, che dicevano di non avere idea che fosse così. Niente di tutto questo era segreto (erano stati scritti numerosi saggi e articoli scientifici), ma nonostante la sua grande importanza la questione era stata ignorata.
Fondamentalmente la superdiffusione non è equamente distribuita. Gli spazi interni scarsamente ventilati possono facilitare la diffusione del virus a distanze maggiori e in periodi di tempo più brevi rispetto a quello che suggeriscono le linee guida, e contribuire ad alimentare la pandemia. All’aperto è l’opposto. C’è un solido motivo scientifico per cui esistono relativamente pochi casi documentati di trasmissione all’aperto, anche dopo un anno di lavoro epidemiologico: l’aria aperta diluisce il virus molto rapidamente e il sole aiuta a disattivarlo, fornendo ulteriore protezione. La superdiffusione, che è il più grande motore della pandemia, sembra essere un fenomeno che riguarda esclusivamente gli spazi chiusi. Ho letto tutti i rapporti che sono riuscita a procurarmi nell’ultimo anno e devo ancora trovare un evento di superdiffusione confermato che si sia verificato esclusivamente all’aperto. Può darsi benissimo che questi eventi ci siano stati, ma se il rischio fosse così alto da giustificare un cambiamento nelle nostre abitudini, mi aspetterei che almeno alcuni fossero documentati.
Eppure le linee guida non riflettono queste differenze, e i messaggi delle autorità non aiutano le persone a comprendere queste cose per poter fare scelte migliori. Il 7 aprile 2020 ho pubblicato il primo articolo in cui chiedevo di mantenere aperti i parchi, ma in molti posti oggi le attività all’aperto sono ancora vietate, un anno intero dopo che questo virus ha cominciato a circolare a livello globale. Sarebbe stato molto meglio se avessimo dato alle persone un’idea realistica dei meccanismi di trasmissione del virus. Le linee guida avrebbero dovuto essere più simili a quelle del Giappone, che sottolineano l’importanza di evitare gli spazi chiusi, i luoghi affollati e i contatti ravvicinati.
Rimproveri e accuse
Nell’ultimo anno i mezzi d’informazione tradizionali e i social network sono stati impegnati in una serie di denunce e accuse, aggravate dal fatto di essere poco scientifiche e fuorvianti. Come osate andare in spiaggia? I giornali ce l’hanno rimproverato per mesi, anche se non c’erano prove che costituisse una minaccia significativa per la salute pubblica. Non erano solo chiacchiere: molte città hanno chiuso parchi e spazi ricreativi, anche se hanno mantenuto aperti i ristoranti e le palestre. A febbraio negli Stati Uniti l’università di Berkeley e l’università del Massachusetts ad Amherst hanno vietato agli studenti di passeggiare all’aperto, anche da soli.
Anche quando le autorità allentano un po’ le regole, non sempre lo fanno in modo ragionevole. Nel Regno Unito, dopo che in alcuni quartieri è stato finalmente consentito, in ritardo, ai bambini di andare nei parchi giochi, è stato subito stabilito che i genitori non dovevano socializzare mentre i loro figli vivevano un momento di normalità. Perché? Non si capisce. Intanto sui social network le immagini di persone all’aperto senza mascherina suscitano rimproveri, insulti e previsioni di superdiffusione, ma quando questo non succede pochi se ne accorgono.
Mentre le attività a basso rischio ma visibili attirano rimproveri, altri rischi reali – negli ambienti di lavoro e nelle case affollate, aggravati dalla mancanza di test e dalle assenze per malattia non retribuite – non sono così facilmente accessibili ai fotografi. Stefan Baral, un professore associato di epidemiologia della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, afferma che è quasi come se avessimo “progettato una risposta alla pandemia adatta ai gruppi ad alto reddito” e alla “generazione di Twitter”, a chi può stare a casa, farsi consegnare la spesa, essere concentrato sui comportamenti che si possono fotografare e svergognare online, invece di creare le condizioni necessarie perché più persone si tengano al sicuro.
E i video virali in cui si svergogna chi non prende precauzioni ragionevoli, come indossare la mascherina al chiuso, non è detto che siano d’aiuto. Innanzitutto, agitarsi perché qualcuno ogni tanto va al supermercato senza mascherina distorce la realtà: la maggior parte della gente la porta. Peggio ancora, far vergognare le persone spesso non è un modo efficace per spingere le persone a cambiare comportamento: rafforza solo la polarizzazione e scoraggia la divulgazione, rendendo più difficile combattere il virus. Dovremmo invece evidenziare i comportamenti più sicuri e far notare quante persone stanno facendo la loro parte, incoraggiando gli altri a fare lo stesso.
La riduzione del danno
In mezzo alla sfiducia e ai rimproveri è caduto nel dimenticatoio un concetto cruciale per la salute pubblica: ridurre il danno significa riconoscere che, se c’è un bisogno umano insoddisfatto ma essenziale, non possiamo semplicemente augurarci che sparisca, dobbiamo consigliare alle persone come fare quello che vogliono in modo più sicuro. Il rischio non può essere mai completamente eliminato, è inutile cercare di ridurlo a zero. Fingere di poter eliminare la complessità con l’assolutismo è controproducente. Pensate all’educazione all’astinenza sessuale: non permettere che gli adolescenti sappiano come avere rapporti sessuali sicuri si traduce in un maggior numero di ragazzi e ragazze che fanno sesso non protetto.
Come mi ha detto Julia Marcus, un’epidemiologa e docente associata della facoltà di medicina di Harvard, “quando le autorità ritengono che i rischi possano essere facilmente eliminati, a volte trascurano le altre cose che contano per le persone: mangiare e avere una casa, essere vicine ai propri cari o semplicemente godersi la vita. La salute pubblica funziona meglio quando aiuta le persone a trovare il modo più sicuro per ottenere ciò di cui hanno bisogno e che desiderano”.
Un altro problema dell’assolutismo è l’effetto “violazione dell’astinenza”, mi ha detto Joshua Barocas, un assistente della facoltà di medicina e malattie infettive dell’università di Boston. Quando diamo come unica scelta la perfezione, le persone che non raggiungono quello standard per un piccolo dettaglio sentono di aver già fallito e tendono ad arrendersi. Chiunque abbia cercato di seguire una dieta o un nuovo regime di attività fisica conosce bene questo stato psicologico. Il sistema migliore è incoraggiare la mitigazione del rischio, sottolineando che ogni piccolo passo avanti aiuta e allo stesso tempo riconoscendo che una vita senza rischi non è possibile né desiderabile.
Socializzare non è un lusso: i bambini devono giocare con altri bambini e gli adulti devono interagire. Dire che i bambini possono giocare insieme all’aperto e che quei momenti sono le migliori occasioni per incontrare i vicini è un messaggio sensato e un modo per ridurre il rischio di trasmissione. Alcuni bambini giocheranno e alcuni adulti socializzeranno comunque, indipendentemente dai rimproveri o dai decreti delle autorità sanitarie, e lo faranno in casa. E se non lo fanno? I bambini saranno privati di un’attività essenziale e gli adulti rimarranno senza compagnia. La socializzazione è forse il fattore più importante per fare previsioni sulla salute e sulla longevità di una persona, dopo l’astensione dal fumo, l’esercizio fisico e una dieta sana. Dobbiamo aiutare le persone a socializzare in modo più sicuro, non incoraggiarle a smettere di farlo.
Conoscenza e azione
L’ultimo punto, ma non meno importante, è che la risposta alla pandemia è stata distorta da uno scarso equilibrio tra conoscenza, rischio, certezza e azione. A volte le autorità sanitarie hanno insistito sul fatto che non ne sapevamo abbastanza per agire, quando molte prove giustificavano già un’azione precauzionale. Indossare le mascherine, per esempio, presentava pochi svantaggi e offriva la possibilità di ridurre i grandi rischi che dovevamo affrontare. L’attesa della certezza ha ostacolato la nostra risposta alla trasmissione per via aerea, anche se non c’erano quasi prove del fatto che gli oggetti avessero un ruolo importante nella trasmissione dell’infezione, mentre le prove contrarie aumentavano. Eppure, è stato sottolineato il rischio legato alle superfici mentre ci si rifiutava di affrontare il rischio di trasmissione aerea. La differenza non stava nel numero di prove o nel supporto scientifico alle due teorie – che semmai, si è spostato rapidamente verso la trasmissione aerea – ma nel fatto che la trasmissione che avviene attraverso gli oggetti e le superfici rientrava nel canone della medicina tradizionale, quella aerea no.
A volte gli esperti non hanno sottolineato che stavano cercando di bilanciare i rischi, come nei dibattiti sui lockdown o sull’apertura delle scuole. Avrebbero dovuto ammettere che non esistevano scelte perfette, ma solo compromessi tra diversi aspetti negativi. Di conseguenza, invece di riconoscere la difficoltà della situazione, troppe persone hanno accusato le autorità di essere insensibili e indifferenti.
E a volte il modo in cui gli studiosi comunicano si è scontrato con il modo in cui le persone costruiscono la loro conoscenza. Nel mondo accademico quello che conta è la pubblicazione, a cui spesso si arriva respingendo l’ipotesi nulla. Questo significa che molti autori non cercano di dimostrare qualcosa in modo definitivo, ma di negare la possibilità che una variabile non abbia alcun rapporto con l’effetto che stanno misurando (al di là del caso). Se questo vi sembra complicato, in effetti lo è: esistono ragioni storiche per questa metodologia e grandi discussioni nel mondo accademico sui suoi meriti, ma per il momento è ancora una pratica standard.
Nei momenti cruciali della pandemia questo ha provocato interpretazioni sbagliate e alimentato equivoci, che sono stati ulteriormente aggravati da posizioni diverse nei confronti delle conoscenze e delle teorie scientifiche precedenti. Certo, eravamo davanti a un coronavirus nuovo, ma avremmo dovuto partire dal presupposto che si potevano fare alcune proiezioni ragionevoli in base alle conoscenze accumulate con gli altri coronavirus, cercando le possibili differenze. Quella precedente esperienza avrebbe dovuto renderci consapevoli della stagionalità, del ruolo chiave della sovradispersione e della trasmissione tramite aerosol. Un occhio attento a ciò che era diverso dal passato ci avrebbe fatto capire prima l’importanza della trasmissione presintomatica.
Il 14 gennaio 2020 l’Oms ha dichiarato che non esistevano “prove chiare di trasmissione da essere umano a essere umano”, mentre avrebbe dovuto dire: “È molto probabile che avvenga, ma non lo abbiamo ancora dimostrato, perché non abbiamo accesso ai dati di Wuhan, in Cina” (a quel punto stavano già spuntando casi in tutto il mondo). Nelle prime settimane della pandemia sarebbe stato più saggio comportarsi come se la trasmissione tra esseri umani fosse dimostrata.
Nella primavera del 2020 i funzionari dell’Oms hanno dichiarato: “Attualmente non esistono prove che le persone che sono guarite dal covid-19 e che hanno prodotto gli anticorpi siano protette da una seconda infezione”, scatenando articoli carichi di disperazione e panico. Avrebbero invece dovuto dire: “Ci aspettiamo che il sistema immunitario funzioni contro questo virus e garantisca una certa immunità per un certo periodo di tempo, ma è ancora difficile conoscere i particolari, perché è troppo presto”.
Allo stesso modo, da quando sono stati annunciati i vaccini troppe dichiarazioni hanno sottolineato che non sappiamo ancora se impediscono la trasmissione. Invece, le autorità sanitarie avrebbero dovuto dire che abbiamo molti motivi, e una quantità sempre maggiore di prove, per pensare che i vaccini attenuano la contagiosità, ma stiamo aspettando ulteriori dati per essere più precisi. È stato un peccato, perché durante la pandemia molte cose sono andate male, ma i vaccini sono una cosa che è andata molto bene.
Ancora nell’aprile del 2020 l’immunologo Anthony Fauci, direttore del National institute of allergy and infectious diseases statunitense, è stato accusato di essere troppo ottimista quando diceva che avremmo potuto avere i vaccini nel giro di un anno, un anno e mezzo. Li abbiamo avuti molto prima: i primi due studi sui vaccini si sono conclusi solo otto mesi dopo che l’Oms aveva dichiarato la pandemia nel marzo del 2020. Inoltre hanno prodotto risultati spettacolari. A giugno del 2020 la Food and drug administration (Fda) statunitense ha affermato che un vaccino efficace solo al 50 per cento nel prevenire il covid-19 sintomatico avrebbe avuto un’approvazione d’emergenza, e questo sarebbe stato sufficiente per giustificarne l’impiego immediato.
Pochi mesi dopo i test clinici dei vaccini della Moderna e della Pfizer si sono conclusi confermando non solo l’incredibile efficacia al 95 per cento, ma anche l’eliminazione dei ricoveri e dei decessi dei vaccinati. La forma più grave della malattia era praticamente scomparsa: l’unico caso classificato come “grave” fra trentamila individui vaccinati nel corso degli studi era così lieve che la paziente non aveva bisogno di cure mediche e il caso non sarebbe stato considerato grave se la sua saturazione dell’ossigeno fosse stata un solo punto percentuale in più.
Eventi rari
Questi sono risultati entusiasmanti, perché la vaccinazione globale, diffusa e rapida è la via d’uscita da questa pandemia. I vaccini che riducono drasticamente i ricoveri e i decessi, e trasformano le malattie gravi in eventi rari, sono la cosa più vicina a un miracolo che sia successa durante questa pandemia, anche se in realtà sono il prodotto della ricerca scientifica, della creatività e del duro lavoro. Saranno la panacea e segneranno la fine di questa storia. Eppure negli Stati Uniti, a due mesi dall’accelerazione della campagna vaccinale, sarebbe difficile dare la colpa alle persone se si fossero perse la notizia che le cose stanno migliorando.
Certo, esistono nuove varianti del virus, che alla fine potrebbero richiedere un richiamo, ma almeno finora i vaccini stanno resistendo molto bene. I produttori stanno già lavorando a nuovi vaccini o a versioni di richiamo incentrate sulle varianti, nel caso in cui si rivelassero necessarie, e le agenzie di controllo sono pronte ad approvare in tempi brevi eventuali aggiornamenti. Le notizie provenienti dai posti in cui è stato vaccinato un gran numero di persone, perfino da quelli in cui le varianti sono diffuse, sono estremamente incoraggianti, con una drastica riduzione dei casi e, soprattutto, dei ricoveri e dei decessi tra i vaccinati. L’equa distribuzione e l’accesso ai vaccini per tutti restano preoccupazioni cruciali, ma le forniture sono in aumento.
Negli Stati Uniti, nonostante l’avvio difficile e il fatto che l’accesso ai vaccini e l’equità non siano ancora garantiti, è ormai chiaro che verso la fine della primavera del 2021 le forniture saranno più che sufficienti. Può sembrare difficile crederci oggi, mentre tante persone alla disperata ricerca di un vaccino aspettano il loro turno, ma in futuro potremmo dover discutere di cosa fare con le dosi in eccesso.
Bloccare del tutto il contagio è un obiettivo difficile da raggiungere
Allora perché non si dà maggiore importanza a questa notizia? Uno dei problemi nel caso dei vaccini è stata la tempistica: per quanto riguarda gli Stati Uniti, gli studi si sono conclusi immediatamente dopo le elezioni presidenziali, e i loro risultati sono stati oscurati dalle settimane di turbolenza politica seguite al voto. Il primo, modesto articolo che annunciava i risultati del vaccino Pfizer-Biontech sul New York Times era di un’unica colonna. Il titolo a tutta pagina era: “Biden chiede un fronte unito contro l’infuriare del virus”.
Solo pochi giorni dopo, la Moderna ha annunciato che il suo vaccino era efficace al 94,5 per cento. Questo avrebbe dovuto dare ancora più motivi per festeggiare, perché confermava che i dati sbalorditivi della Pfizer non erano un colpo di fortuna. Ma, sempre in mezzo alle turbolenze politiche, il rapporto della Moderna ha ottenuto solo due colonne sulla prima pagina del New York Times con un titolo altrettanto modesto: “Un altro vaccino sembra funzionare contro il virus”.
Quindi non abbiamo potuto entusiasmarci subito. Ma appena sono partite le vaccinazioni, i giornalisti hanno cominciato a mettere in guardia i vaccinati su tutto quello che non potevano fare. “Essere stati vaccinati contro il covid-19 non significa che si può brindare come se fosse l’inizio di un nuovo secolo”, ammoniva un titolo. E hanno continuato sullo stesso tono. “Siete stati vaccinati, e ora? Non aspettatevi di poter togliere la mascherina e tornare subito alla vita normale”, si leggeva in un articolo dell’Associated Press.
Forse le persone vorrebbero festeggiare dopo essere state vaccinate. Queste iniezioni ci permetteranno di fare qualcosa di più, prima nella nostra vita privata e con le altre persone vaccinate, e poi, gradualmente, anche nella vita pubblica. Ma ancora una volta, le autorità e i mezzi d’informazione sembrano più preoccupati per i comportamenti potenzialmente imprudenti dei vaccinati e tendono a dirgli cosa non possono fare, invece di fornire indicazioni più sfumate che riflettano l’incertezza e il fatto che la vaccinazione può cambiare i comportamenti. Nessuna linea guida può tener conto di ogni situazione, ma informazioni accurate e aggiornate possono aiutare tutti.
Dubbi e allarmismi
Prendiamo, per esempio, i messaggi e i discorsi pubblici sui rischi che le persone vaccinate trasmettano il virus. Ovviamente è importante tener conto del fatto che molti vaccini prevengono le forme gravi della malattia, ma non il contagio e la trasmissione. In effetti bloccare completamente il contagio, arrivare a quella che viene spesso chiamata “immunità sterilizzante”, è un obiettivo difficile da raggiungere, anche per molti vaccini altamente efficaci, ma questo non gli impedisce di essere estremamente utili.
Come ha affermato all’inizio di dicembre Paul Sax, uno specialista di malattie infettive del Brigham & Women’s hospital di Boston, sarebbe molto sorprendente “se questi vaccini altamente efficaci non rendessero le persone anche meno inclini a trasmettere”. Da vari studi sapevamo già che le persone asintomatiche avevano molta meno probabilità di trasmettere il virus. Gli studi sui vaccini riportavano riduzioni del 95 per cento di qualsiasi forma di malattia sintomatica. A dicembre abbiamo appreso che la Moderna aveva fatto il tampone a una parte dei partecipanti al suo studio per rilevare eventuali infezioni asintomatiche e silenziose, riscontrando una riduzione di quasi due terzi anche in questi casi. Le buone notizie continuavano ad arrivare. Diversi studi avevano scoperto che anche nei pochi casi in cui le persone vaccinate si ammalavano, la carica virale era bassa, e questo significa che lo era anche il tasso di trasmissione. I dati delle popolazioni vaccinate hanno ulteriormente confermato le previsioni di molti esperti: i vaccini riducono la trasmissione.
Eppure, fin dall’inizio una buona parte delle comunicazioni e degli articoli lasciavano intendere o affermavano che i vaccini non impediscono di infettare altre persone o che ancora non sapevamo se possono impedirlo, quando entrambe queste notizie erano false. Mi sono trovata a cercare di convincere tutti quelli che conosco che i vaccini non sono inutili contro la trasmissione e di essere bombardata sui social network da persone che affermavano il contrario.
Cos’è andato storto? La stessa cosa che sta andando storta in questo momento con i dubbi sulla capacità dei vaccini di proteggere dalle nuove varianti virali. Alcuni mezzi d’informazione presentano l’ipotesi peggiore o interpretano male le ricerche. Le autorità sanitarie hanno paura di incoraggiare il rilassamento di qualsiasi precauzione. Sui social network alcuni esperti, anche quelli con credenziali apparentemente solide, tendono a rispondere a qualsiasi domanda in modo allarmante. Quindi i messaggi che circolano sono che i vaccini non impediscono la trasmissione o che non funzioneranno contro nuove varianti o che non sappiamo se lo faranno. Invece le persone dovrebbero sentirsi dire che, sulla base dei dati esistenti, ci aspettiamo che funzionino abbastanza bene, ma con il tempo ne sapremo di più su quanto esattamente sono efficaci e sulle modifiche che potrebbero renderli ancora migliori.
Abbiamo nascosto il vero problema e non siamo riusciti a fare di più per fornire a tutti condizioni di vita e di lavoro sicure
A un anno dall’inizio della pandemia, stiamo ripetendo gli stessi errori. E i messaggi dall’alto non sono l’unico problema. I rimproveri, il rigore, l’incapacità di spiegare i lati positivi e negativi e le accuse di non preoccuparsi delle persone che muoiono non solo attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, ma c’è perfino chi imita questi comportamenti, forse anche perché affermare l’importanza delle azioni individuali dà la sensazione di controllare gli eventi, nonostante tutte le incertezze.
Gli psicologi parlano di “luogo di controllo”: la forte convinzione che hanno certe persone di controllare il proprio destino. E distinguono tra quelle più orientate al controllo interno, che si sentono protagoniste del proprio destino, e quelle orientate al controllo esterno, convinte che la società, il destino e altri fattori al di fuori del loro controllo influiscano su ciò che succede. Quest’attenzione al controllo individuale va di pari passo con quello che si chiama “errore fondamentale di attribuzione”: quando succedono cose spiacevoli ad altre persone tendiamo a credere che sia colpa loro, mentre quando succedono a noi ce la prendiamo più spesso con la situazione o con circostanze fuori del nostro controllo.
Il mito degli Stati Uniti si basa su un luogo di controllo individualistico: gli statunitensi si considerano un popolo di lottatori che si fanno strada da soli. L’orientamento al controllo interno non è necessariamente negativo, può facilitare l’adattabilità piuttosto che il fatalismo, spostando l’attenzione su ciò che possiamo fare come individui anche se il mondo intorno a noi sta crollando.
Quest’orientamento sembra essere comune tra i bambini, che non solo sopravvivono ma a volte se la cavano benissimo in situazioni terribili: assumono il controllo e ci provano e, con un po’ di fortuna, ce la fanno. Probabilmente esercita un’attrazione ancora maggiore sulle persone istruite e benestanti, che sentono di aver avuto successo con le proprie forze. Anche in una pandemia si può capire il fascino di un luogo di controllo interno e individuale, perché senza una cura un agente patogeno può diffondersi a livello globale, cambiare la nostra vita, farci ammalare e potrebbe rivelarsi fatale.
C’erano pochissime cose che potevamo fare a livello individuale per ridurre il rischio del contagio oltre a indossare le mascherine, stare distanti e disinfettarci. Il desiderio di esercitare un controllo personale contro un nemico invisibile e pervasivo è probabilmente il motivo per cui per molto tempo abbiamo continuato a insistere sulla pulizia delle superfici, con quello che viene giustamente chiamato “teatro dell’igiene”, anche quando era ormai chiaro che gli oggetti non erano un fattore chiave della pandemia.
La pulizia ossessiva ci ha dato qualcosa da fare e non volevamo rinunciarci, anche se si era rivelato inutile. Non c’è da stupirsi se tanti insistono nel dire agli altri di restare a casa – anche se per le persone che non possono lavorare da remoto non è una scelta – e nel rimproverare quelli che osano socializzare o godersi un momento all’aria aperta. E forse era troppo aspettarsi che una nazione riluttante a mollare la presa sulla bottiglia di candeggina salutasse l’arrivo dei vaccini, per quanto spettacolare, immaginando il giorno in cui avrebbe potuto cominciare a togliersi la mascherina.
Vittime nascoste
L’attenzione alle azioni individuali ha avuto i suoi lati positivi, ma ha anche portato all’esclusione di una parte considerevole delle vittime della pandemia dal discorso pubblico. Se le nostre azioni guidano tutto, allora quando le cose vanno male per gli altri, la colpa è loro. Il mantra che molti di noi continuavano a ripetere – “Metti la mascherina, resta a casa. Metti la mascherina, resta a casa” – ha tenuto nascoste molte delle vere vittime.
Uno studio dopo l’altro ha confermato che questa malattia ha colpito in modo sproporzionato i poveri e le minoranze, insieme agli anziani, particolarmente vulnerabili alle malattie gravi. Anche tra gli anziani, però, quelli che sono più ricchi e hanno un’assistenza sanitaria migliore se la sono cavata meglio. I poveri e le minoranze stanno morendo in numero sproporzionato per gli stessi motivi per cui soffrono di altre malattie: una vita di svantaggi, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria, condizioni di lavoro peggiori, alloggi affollati e risorse limitate.
Molti non avevano la possibilità di restare a casa proprio perché stavano lavorando per permettere agli altri di fare ciò che loro non potevano fare, riempiendo scatole, consegnando generi alimentari, producendo da mangiare. E anche quelli che potevano restare a casa hanno dovuto affrontare altri problemi dovuti alla disuguaglianza: gli alloggi affollati sono associati a tassi più elevati di infezione da covid-19 e conseguenze più gravi, probabilmente perché molti dei lavoratori essenziali che vivono in abitazioni di questo tipo portano il virus in casa ai parenti anziani.
La responsabilità individuale ha svolto un ruolo importante nella lotta alla pandemia, ma molte vittime hanno avuto poco da scegliere. Concentrandoci in modo sproporzionato sulle scelte individuali, abbiamo nascosto il vero problema e non siamo riusciti a fare di più per fornire a tutti condizioni di vita e di lavoro sicure. Per esempio, molti si sono lamentati di non poter andare al ristorante. Ma anche l’asporto e la consegna a domicilio possono avere un costo elevato: da uno studio condotto in California è emerso che i cuochi rischiano di morire di più di covid-19. A meno che non siano stanziati i fondi per permettere ai ristoranti di restare chiusi, o garantiti ai loro dipendenti mascherine ad alto filtraggio, una migliore ventilazione, congedi per malattia retribuiti, test rapidi frequenti e altre forme di protezione, il cibo da asporto può semplicemente spostare il rischio sui più vulnerabili. Forse i luoghi di lavoro poco sicuri non sono in cima alle nostre priorità, ma rappresentano un vero pericolo.
Nuovi dati evidenziano il terribile prezzo della disuguaglianza negli Stati Uniti: nell’ultimo anno l’aspettativa di vita è drasticamente diminuita, e gli afroamericani hanno pagato il prezzo più alto, seguiti dagli ispanici. Le minoranze hanno anche una maggiore probabilità di morire di covid-19 in giovane età. Ma quando la nuova direttrice dei Centers for disease control and prevention (Cdc), Rochelle Walensky, ha visto questa terribile statistica, ha immediatamente esortato gli statunitensi a “continuare a usare le misure di prevenzione già approvate: indossare una mascherina che aderisce bene al viso, stare a due metri di distanza dalle persone con cui non si convive, evitare gli assembramenti e i luoghi poco ventilati e lavarsi spesso le mani”.
Questi consigli non sono sbagliati, ma sono incompleti. Nessuno di questi comportamenti individuali basta per proteggere chi non si può permettere di scegliere. I Cdc devono ancora emettere linee guida sulla ventilazione nei posti di lavoro e rendere obbligatorie, o almeno disponibili, mascherine a filtraggio più elevato per i lavoratori essenziali. Inoltre, questi divieti non sono abbastanza frequentemente abbinati a prescrizioni del tipo: socializzare all’aria aperta, non chiudere i parchi e lasciare che i bambini giochino insieme all’aperto.
Punti di forza e di debolezza
I vaccini sono lo strumento che metterà fine alla pandemia. La storia del loro arrivo combina alcuni dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, rivelando i limiti del modo in cui pensiamo e valutiamo le prove, forniamo linee guida e reagiamo a situazioni incerte e difficili. Ma è anche vero che, dopo un anno così faticoso, forse è difficile per tutti – compresi gli scienziati, i giornalisti e le autorità sanitarie – immaginare questa fine, sperare. Ci adattiamo abbastanza rapidamente alle nuove condizioni, anche a condizioni terribili. Durante questa pandemia ci siamo adattati a cose che molti di noi non avrebbero mai pensato fossero possibili. Miliardi di persone hanno condotto una vita drasticamente più limitata e circoscritta e hanno sopportato le scuole chiuse, l’impossibilità di vedere i propri cari, la perdita del posto di lavoro, l’assenza di attività comuni, la minaccia e la realtà della malattia e della morte.
La speranza ci nutre nei momenti peggiori, ma è anche pericolosa. Sconvolge il delicato equilibrio della sopravvivenza, in cui smettiamo di sperare e ci concentriamo sul tirare avanti, e ci espone a una cocente delusione se le cose non vanno a finire bene. Dopo un anno terribile, molte cose stanno comprensibilmente rendendo più difficile osare sperare. Eppure, soprattutto negli Stati Uniti, tutto sembra migliorare di giorno in giorno.
Abbiamo avuto la tragica conferma che almeno 28 milioni di statunitensi sono stati infettati, ma il numero reale è sicuramente molto più alto. Secondo una stima, 80 milioni di statunitensi sono già stati contagiati dal covid-19, e molte di queste persone ora hanno un certo grado di immunità. Altri 46 milioni di persone hanno già ricevuto almeno una dose di vaccino e ne stiamo vaccinando altri milioni ogni giorno, man mano che i problemi di fornitura diminuiscono. I vaccini dovrebbero ridurre o quasi eliminare le cose più preoccupanti: malattie gravi, ricoveri e decessi.
Ma non tutti i problemi sono ancora risolti. Restano da superare i prossimi mesi, in cui bisognerà affrettarsi a vaccinare contro varianti più trasmissibili. Negli Stati Uniti bisogna fare di più per risolvere il problema dell’equità, perché è la cosa giusta da fare e perché non vaccinare le persone ad alto rischio rallenterebbe l’effetto della campagna sull’intera popolazione. Bisogna assicurarsi che i vaccini non restino inaccessibili ai paesi più poveri. Bisogna mantenere alta la sorveglianza epidemiologica di modo che, nel caso in cui emerga qualcosa in grado di minacciare i nostri progressi, si possa rispondere rapidamente.
E il comportamento pubblico dei vaccinati non può cambiare dall’oggi al domani: anche se sono molto meno a rischio, non è ragionevole aspettarsi che un negozio di alimentari verifichi chi è vaccinato o che ci siano due categorie di persone con regole diverse. Per ora, è rispettoso e prudente che tutti ubbidiscano alle stesse linee guida nei luoghi pubblici. Tuttavia, le persone vaccinate possono sentirsi più tranquille se fanno qualcosa che prima avrebbero dovuto evitare, come farsi tagliare i capelli, andare a trovare una persona cara, comprare qualcosa di non essenziale in un negozio.
È arrivato il momento d’immaginare un futuro migliore, non solo perché si sta avvicinando, ma perché è così che supereremo il tempo che resta pur mantenendo alta la guardia. È anche realistico, perché riflette la maggiore sicurezza per i vaccinati. Le autorità sanitarie dovrebbero cominciare immediatamente a fornire informazioni più precise alle persone vaccinate, in modo che possano prendere decisioni informate sui loro comportamenti privati. Questo è giustificato dai dati incoraggianti ed è un ottimo modo per far capire a tutti quanto sono meravigliosi questi vaccini. Tardare a farlo può avere grandi costi umani, soprattutto per gli anziani che sono stati isolati così a lungo.
Le autorità sanitarie dovrebbero anche essere più esplicite sui prossimi passi, darci linee guida su quando possiamo aspettarci un allentamento delle regole di comportamento in pubblico. Abbiamo bisogno che la strategia di uscita dalla pandemia sia ben definita, ma con una serie di misure graduali e mirate, non di messaggi generici. Dobbiamo far sapere alle persone che essere vaccinate cambierà quasi immediatamente la loro vita in meglio e anche che un aumento delle vaccinazioni modificherà non solo i rischi e le opportunità individuali, ma ci porterà tutti fuori dalla pandemia.
Dovremmo incoraggiare le persone a sognare la fine della pandemia parlandone di più, e più concretamente: con i numeri, i come e i perché. Offrire una guida chiara su come andrà a finire può rafforzare la determinazione delle persone a sopportare tutto ciò che è necessario in questo momento, anche se non sono state ancora vaccinate, e costruire un’anticipazione realistica della fine della pandemia. La speranza ci aiuterà a superare tutto questo. E presto potremo scendere dalla metropolitana per andare a un concerto, prendere un giornale e trovare il titolo trionfale: “Il covid è stato sconfitto!”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul numero 1400 di Internazionale con il titolo “Gli errori che hanno aiutato il virus”. Compra questo numero | Abbonati. L’originale era apparso sull’Atlantic con il titolo “5 pandemic mistakes we keep repeating”.
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