Oggi è il compleanno di Bob Dylan. Il cantautore di Duluth compie 72 anni. Della sua importanza nel panorama folk e rock si è già scritto tante volte. Del suo impatto sui movimenti di protesta statunitensi nel dopoguerra anche. Della sua instancabile attività live, del modo in cui ogni volta riarrangia i suoi successi al limite della storpiatura si continua a discutere ancora oggi.

Ecco qualche momento della carriera di Mr. Zimmerman che, secondo me, è giusto ricordare nel giorno del suo compleanno. Questi video spiegano in parte il personaggio, e la sua grandezza. Ne mancano molti, come [la marcia del ‘63 a Washington][1]. Sono curioso di sapere i vostri preferiti, se volete scriverli nei commenti qui sotto.

A metà degli anni sessanta l’artista aveva inaugurato la sua “svolta elettrica”, passando dalla “musica di protesta” degli esordi a un più visionario ibrido tra folk e rock. Per molti integralisti questo stile era “pop” e tradiva gli ideali della contestazione. Dylan era diventato un traditore.

Al festival folk di Newport, nel 1965, dove di solito i cantanti si esibivano rigorosamente in acustico, si era perfino permesso di portare la band, suonando un set che ha fatto infuriare il pubblico tradizionalista. Si racconta che Pete Seeger, eroe della musica impegnata statunitense, era così arrabbiato che voleva tagliargli i cavi elettrici degli amplificatori.

A molti però, forse per la rabbia, è sfuggito il fatto che in quei momenti è nato un bel pezzo del rock come lo intendiamo oggi. Questa Maggie’s farm è talmente arrabbiata che sembra quasi punk.

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Uno scontro frontale proseguito anche l’anno successivo. Nel 1966 alla Free trade hall, a Manchester, Dylan viene contestato durante un concerto. Gli show del cantante, in quella tournée, erano divisi in due parti. La prima totalmente acustica, “alla vecchia maniera”, e la seconda elettrica insieme al suo gruppo spalla dell’epoca, quella che poi sarebbe diventata The band.

Durante il concerto di Manchester di quell’anno, un fan gli grida: “Judas (Giuda)”. Dopo l’offesa, si sente un applauso, seguito da altre grida. Un uomo urla: “I’m never listening to you again, ever!” (Non verrò mai più ad ascoltarti!), Dylan gli risponde: “I don’t believe you” (Non ti credo), poi dopo una lunga pausa, aggiunge “You’re a liar” (Sei un bugiardo).

Poi, in uno di quei momenti che tanto piacciono agli appassionati di rock, si gira verso la band e dice: “Play it fuckin’ loud” (Fate casino, potremmo tradurre senza usare parolacce). E attacca una Like a rolling stone dal sapore storico. Urlata come se fosse l’ultimo giorno del mondo.

Nel documentario di Martin Scorsese No direction home viene ricostruito proprio questo momento.

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Uno stile molto diverso da quello che Dylan aveva inaugurato appena un paio d’anni prima. Eccolo durante un’apparizione televisiva, giovanissimo, vestito come il suo idolo Woody Guthrie. Era il 1963. Lui aveva solo 22 anni e aveva già scritto canzoni come questa.

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Ancora diverso il Bob versione 1969, che dopo l’ubriacatura elettrica ha deciso di tornare alle radici con l’album Nashville skyline. Qui è in compagnia di Johnny Cash, per una versione tradizionalista di One too many mornings.

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Questo è un estratto da The last waltz, storico documentario del solito Scorsese sul concerto di The band e ricco di ospiti speciali. Tra questi non poteva mancare Dylan, che in realtà non avrebbe voluto essere filmato.

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Bob ha dato il meglio di sé negli anni sessanta, su questo ci sono pochi dubbi. Ma anche nei decenni successivi ha regalato dischi memorabili. Uno di questi è sicuramente Blood on the tracks, uscito nel 1975. Un piccolo saggio del Dylan “maturo”, in questa versione dal vivo della splendida Tangled up in blue.

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Negli anni ottanta, suo malgrado, ha dovuto adattarsi allo spirito dei tempi. La musica era cambiata, ma non solo quella. Basta dare un occhio alla giacca che indossa nel videoclip di Tight connections to my heart.

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Anche in vecchiaia, il cantautore di Duluth non ha mollato il colpo. Il suo “Neverending tour” continua a girare il pianeta senza fermarsi, e i suoi dischi continuano a uscire. Con fortune alterne, certo. Ma l’ultimo album [Tempest][2] è la prova che è più vivo che mai.

Mentre altri, come i Rolling Stones, cercano di sembrare giovani e scattanti, lui se ne frega. Si veste come un vecchio cowboy texano e suona un blues elettrico e scontroso. Un po’ come questo, che risale a una decina di anni fa, registrato per la colonna sonora del film Masked and anonymous.

Cold irons bound era già apparsa in Time out of mind, ma questa seconda versione dà molto bene l’idea di cosa sia diventato Dylan oggi. Tanti auguri, vecchio Bob.

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