Jurij Temirkanov è un direttore d’orchestra famoso, ma non è una megastar, forse perché è sempre rimasto fuori dal grande giro discografico quando il mercato era inondato da integrali delle sinfonie di tutti dirette da chiunque.
Io, che frequento assiduamente le sale da concerto da venticinque anni, l’ho sentito per la prima volta sabato sera alla testa dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia. C’ero andato soprattutto per sentire Martha Argerich in uno dei suoi piatti forti, il concerto per piano, tromba e orchestra d’archi di Dmitrij Šostakovič. Alla fine è stato uno di quei rari casi nei quali un concerto mi è piaciuto tanto che dei tre lavori in programma non saprei dire quale mi è piaciuto di più.
Il primo era la sinfonia di Franz Joseph Haydn in sol maggiore, Hob. I/94. È nota con ben due soprannomi, “La sorpresa” o “Il colpo di timpani”, ed è una delle sinfonie che Haydn compose quando era a Londra (questa è del 1791). La sorpresa che s’era inventato lui era un improvviso fortissimo all’inizio del morbido andante, che per l’epoca doveva essere una stravaganza molto buffa. La sorpresa mia è stata trovarmi a sentire un’esecuzione sempre agile, leggera e divertente. Temirkanov è un severissimo signore russo di 76 anni con gli occhiali, sempre attento alla partitura aperta davanti, ma per ricordare all’orchestra di tenere un suono adatto sorrideva molto ai musicisti e dopo il primo movimento, prima dell’andante con il colpo di timpani clou, ha fatto un segno esplicito ai suoi colleghi romani tirandosi su gli angoli della bocca con le dita. Ha funzionato.
Martha Argerich suona Šostakovič
Poi è arrivato Šostakovič. Il concerto è del 1933 ed è uno dei suoi (pochi) lavori che non ci fanno venire in mente l’immagine dell’uomo dilaniato da una vita sotto la dittatura sovietica. Sembra la musica di un film comico muto (l’angolo della curiosità: lo sapevate che il giovane Šostakovič faceva il pianista accompagnatore dei film muti?), con un pianoforte che parte a velocità folgorante accompagnato da un’allegra trombetta con l’apparente obiettivo di andare sempre più veloce dell’orchestra, che cerca in ogni modo di stargli dietro. Intanto temi, tempo e tutto il resto cambiano ogni dieci secondi, sempre per sfilarci la sedia da sotto il sedere.
Il fenomeno del solista che si scorda del direttore e parte più veloce della luce è un problema, ed è un classico di Martha Argerich: io ricordo un terzo concerto di Prokofev a Milano con il povero Riccardo Chailly sempre più agitato mentre cercava di tenere tutto insieme. Qui è la musica stessa a invitare il giochino, e se c’è l’entusiasmo delle grandi comiche funziona benissimo anche se gli attacchi non sono proprio tutti millimetrati. Martha era in serata sì e nei pochi momenti in cui non suonava si batteva il tempo sulle gambe facendo svolazzare la sottanona colorata, Giuliano Sommerhalder, il trombettista, non la mollava mai, e l’orchestra contribuiva compatta all’allegro frastuono senza renderlo mai caotico.
Bis insolito: quando i solisti sono due l’etichetta standard dei concerti, con il pianista che suona il suo breve bis da solo, non funziona più molto bene. Così, dopo un rapido conciliabolo, ci è stato offerto da capo l’ultimo movimento del concerto, nel quale il pianoforte ha una gag tutta sua: mentre l’orchestra sembra approfittare di un raro momento di calma per prendere il fiato e la tromba fa una musica che per un attimo non va a 78 giri, il pianista ci scaraventa addosso un accordone che nel nostro ipotetico film muto sarebbe la cassaforte che piomba da un montacarichi sulla testa di un passante incauto. Quando l’ha rifatto, Martha si è messa a ridere da sola.
L’orchestra contribuiva compatta all’allegro frastuono senza renderlo mai caotico
L’ottava sinfonia di Antonín Dvořák, terzo pezzo del programma, è perfetta per far fare un figurone all’orchestra. Nel mondo dei classical pop di Dvořák è stracciata dalla nona sinfonia, quella “dal nuovo mondo”, ma ci meriteremmo di sentire più spesso anche l’ottava, che è del 1890. “Una delle sue composizioni più spontanee e distese, priva di conflitti, ridente nell’invenzione, piacevole per la varietà ritmica e l’eleganza della scrittura”: nella sua Guida all’ascolto della musica sinfonica (un prezioso librettino Feltrinelli del 1967, figlio di un’epoca di educazione non cretina per quel popolo che non voleva più essere bue) Giacomo Manzoni la definisce così.
E riassume meglio di me le ragioni per le quali alla fine di questa mezz’ora sarei stato felice se me l’avessero suonata tutta da capo, e perché oggi me la sono già risentita una volta (stamani a casa mia c’era un vecchio disco Emi con la Cleveland orchestra diretta da George Szell, che in realtà si chiamava Széll György, tanto per non scordarci che era uno degli ungheresi che hanno fondato la crème delle orchestre degli Stati Uniti. Quiz: chi sono gli altri due molto famosi?).
Un paio d’anni fa Temirkanov è stato punto focale di Women, gays and classical music, un articolo per il New Yorker del solito, splendido Alex Ross che ci rivelava un’intervista alla Nezavisimaja Gazeta nella quale il vecchio direttore della filarmonica di San Pietroburgo spiegava che le donne non possono dirigere un’orchestra perché sarebbe contro natura, visto che “l’essenza della direzione d’orchestra è la forza, l’essenza della donna è la debolezza”.
Letto questo, avevo deciso che avrei visto volentieri Temirkanov solo se era circondato da venti Femen armate di vernice indelebile. Invece l’ho visto ieri sera e, come capita a chi pensa alla musica più che a chi la fa, gli sono grato per due ore bellissime.
Una sinfonia del settecento, un concerto del novecento, un’altra sinfonia dell’ottocento. Nessuna rarità del repertorio (anche se mi viene la domanda: perché dalle nostre parti sono così rare le grandi, succulente sinfonie del tardo Haydn?), ma tre pezzi tutto sommato allegri e poco faticosi per l’ascoltatore. Un solista indiscutibile, un altro più giovane e all’altezza, un’orchestra in grande spolvero e un direttore che sguazza in tutta la musica della serata. Non è roba da andare a sentire perché fa figo, sembra la descrizione del concerto standard di una stagione statunitense del 1955. È quello che ho sentito sabato 11 aprile nella sala Santa Cecilia di Roma, e sarebbe piaciuto anche a chi di solito pensa che la musica cosiddetta classica sia noiosa.
Il concerto di lunedì 13 aprile, stesso programma, andrà in onda in diretta su Rai Radio3 e il 7 maggio su Rai5. Segnatevelo sull’agenda, ne vale la pena. Poi magari se incontrate il presidente della repubblica potete chiedergli che glien’è parso: sabato c’era anche lui.
Ah già, il quiz! Frederick “Fritz” Reiner era nato a Budapest (e sui dischi ungheresi si chiama Reiner Frigyes). Eugene Ormandy era nato a Budapest, e si chiamava Ormándy-Blau Jenő. E Széll György era nato a Budapest. Tre delle big five statunitensi, le orchestre di Chicago, Filadelfia e Cleveland, erano ungheresi e non lo sapevano.
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