Tito Boeri e Michael Spence durante l’incontro “Come governare la catena produttiva globale”. (Festival dell’economia di Trento)

Mozambico, 30 maggio 2013

Il festival dell’economia di Trento è organizzato benissimo, offre numerosi incontri, tutti interessanti e con argomenti e, soprattutto, punti di vista differenti. L’unica cosa di cui ho sofferto, ma solo all’inizio, è la mancanza di una mappa con i luoghi del festival. Mi ha costretto a girovagare a lungo per le vie del centro storico prima di trovare l’ex convento degli agostiniani, a quanto pare sconosciuto anche alle persone che incontravo per strada. Un signore mi ha dato un’indicazione ma ho sbagliato vicolo, e alla fine ho trovato la strada giusta grazie a un vigile e a un negoziante.

Volevo assistere all’incontro “Un paese che non esiste: il Mozambico tra sovranità e dipendenza”, titolo ispirato all’ultimo libro del sociologo mozambicano Elisio Macamo, ospite del panel in collegamento via Skype insieme ad Anna Maria Gentili, africanista presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, e a Carla Locatelli, dell’Università di Trento. L’evento era organizzato dal Centro per la formazione alla solidarietà internazionale di Trento, un’associazione che da anni sviluppa progetti di cooperazione in Mozambico (i rapporti tra la città italiana e il paese africano sono così consolidati, che a Trento si è recato in visita anche il presidente mozambicano Armando Guebuza).

“Il Mozambico non esiste” è un titolo sfrontato, ha esordito Macamo. Ovviamente il paese – inteso come territorio e strutture fisiche – esiste, tutti lo possono vedere. La sua “non esistenza” è legata agli effetti “perversi” prodotti dal rapporto tra la società mozambicana e gli aiuti allo sviluppo, che garantiscono due terzi del bilancio dello stato mozambicano. Ora, aiutare un altro paese è di per sé un’azione nobile, che nasce in chi sta bene e sente l’obbligo morale di alleviare le sofferenze di chi sta male. Gli effetti perversi si producono quando l’aiuto allo sviluppo nega il diritto di ogni paese a essere trattato come tutti gli altri paesi, cioè il diritto a determinare il proprio destino, la propria storia. Gli effetti perversi sorgono quando chi aiuta non insegna a far bene delle cose, ma assume l’atteggiamento di quello che ha fatto tutto bene nella vita ed è convinto di dover decidere per quello che nella vita ha fatto tutto male.

In sostanza, oggi in Mozambico un’idea o un’iniziativa assume lo status di verità purché sia legata agli aiuti allo sviluppo. Chi organizza gli interventi umanitari detta praticamente legge, non ammette discussioni né con il governo né con la società. A quel punto interviene la cosiddetta “trivializzazione del politico”: il parlamento mozambicano non discute quello che viene deciso dai gestori dei fondi per lo sviluppo. La sovranità del paese, dunque, è limitata da un forte intervento esterno.

Ma la politica non è l’unica vittima: è l’intera società mozambicana a subire trasformazioni. I cittadini più preparati e intraprendenti lavorano nei progetti per lo sviluppo, diventano esecutori dei progetti altrui, rinunciando alla creatività e allo spirito critico. I problemi del loro paese non sono delle cose da risolvere, ma diventano un fattore che giustifica la loro attività e quindi la conservazione del loro status. Come ha dichiarato lo scrittore António Emílio Leite Couto, detto Mia Couto, parlando del lavoro di Macamo, il Mozambico è guidato da “un’élite falsamente pensante che formula progetti e consulenze. È un paese dove non si formano più intellettuali”. La tragedia di questa situazione, ha concluso Macamo, è che l’obbligo morale di aiutare sta producendo paesi che non esistono. Ci vuole invece l’obbligo morale di non far male agli altri.

Globalizzazione, 30 maggio 2013

Dopo l’incontro sul Mozambico sono corso al Teatro Sociale per ascoltare Michael Spence, premio Nobel per l’economia nel 2001. Introdotto da Tito Boeri, direttore scientifico del festival, l’economista statunitense ha detto che viviamo in un mondo cambiato profondamente negli ultimi dieci-quindici anni, un mondo profondamente interconnesso che continua a cambiare velocemente. Bisogna adattarsi all’evoluzione veloce dei nostri tempi, e lo devono fare anche le istituzioni politiche. Ma non si tratta necessariamente di un mondo in cui alcuni vincono facendo perdere gli altri. Spence ha raccontato che quando va in Cina, molti gli confessano che la crisi dell’Europa è un grande pericolo, visto che il vecchio continente è il loro mercato principale. E quindi i cinesi si augurano che l’Europa si riprenda, non che vada a fondo.

Ma quali sono i fattori che hanno prodotte le trasformazioni profonde degli ultimi anni? Secondo Spence, sono essenzialmente due: da un lato la crescita dei cosiddetti paesi emergenti, cioè paesi come Cina, Brasile, India, Russia, Messico che vent’anni fa erano molto poveri e oggi hanno economie in continua espansione; dall’altro lato c’è l’evoluzione dei sistemi produttivi, che non sono più concentrati in unico luogo ma sono di fatto estesi al mondo intero: oggi, cioè, i prodotti sono il risultato finale di componenti fabbricate in diverse parti del pianeta.

Gli occidentali devono prendere atto di queste trasformazioni. Fino a vent’anni fa dominavamo un’economia globale in cui gli unici paesi ricchi e avanzati erano quelli occidentali. Vivevamo in un mondo fatto solo di nostri simili, mentre nel resto del pianeta c’erano paesi economicamente insignificanti. Pur con tutte le differenze che ci possono essere tra francesi, statunitensi o italiani, eravamo comunque abituati a rapportarci con persone, mentalità e sistemi abbastanza simili. Oggi non è più così: ci dobbiamo confrontare con i paesi emergenti, che crescono e vogliono diventare come gli occidentali.

I dati confermano il loro peso economico: nel 2000 il 60 per cento della ricchezza mondiale apparteneva ai paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (Ocse, un’organizzazione di cui fanno parte i paesi più ricchi del mondo), mentre nel 2010 la quota di ricchezza dei paesi dell’Ocse si era ridotta a circa il 50 per cento. Le economie emergenti hanno più peso e lo avranno sempre di più. Spence prevede che entro una decina di anni la Cina avrà lo stesso peso mondiale di qualunque altro paese occidentale avanzato. Certo, i paesi emergenti continuano ad avere un livello di ricchezza individuale nettamente più basso: la ricchezza pro capite della Cina è molto inferiore a quella degli Stati Uniti, ma anche questa differenza sarà colmata ed entro trenta-quaranta anni un cinese medio sarà ricco quanto un americano o un europeo.

Cosa ha favorito l’ascesa dei paesi emergenti e quindi la trasformazione del mondo? Qui entra in gioco l’altro fattore citato da Spence: il cambiamento dei sistemi produttivi. In passato, ha spiegato, un’azienda italiana produceva solitamente nel suo luogo d’origine e vendeva i prodotti in mercati non molto lontani. Oggi, grazie all’evoluzione tecnologica e dei trasporti, la stessa azienda può produrre in molte parti del mondo. La filiera produttiva, cioè, è diventata estremamente “atomizzata”. Per questo oggi le economie occidentali producono direttamente meno beni “commerciabili” (cioè prodotti manufatti destinati all’esportazione), che ormai corrispondono solo a un terzo della ricchezza prodotta ogni anno. La fabbricazione di beni commerciabili si è spostata verso i paesi emergenti. Ma questo fenomeno ha anche un risvolto positivo: l’azienda italiana che ora produce in Indonesia ha anche la possibilità di vendere i suoi prodotti in quel paese. L’atomizzazione della filiera produttiva, quindi, ha prodotto anche permesso l’allargamento delle aree commerciali.

Ora, se è vero che comunque il nuovo mondo globalizzato offre grandi opportunità alle aziende che si sanno adattare a esso, un drammatico problema irrisolto in occidente è quello del lavoro: le opportunità offerte dall’economia globale generano ricchezza ma non posti di lavoro. Dopo lo scoppio della crisi nel 2008, molti paesi hanno recuperato in termini di ricchezza ma non di occupazione. Cos’è successo? La tecnologia, ha detto Spence, ha permesso non solo lo spostamento delle produzioni in tutto il mondo, ma anche l’eliminazione di molti lavori. Oggi alcune mansioni più ordinarie sono svolte direttamente dai robot nelle fabbriche o dai computer automatizzati nelle banche. La distruzione del lavoro riguarda dunque anche le mansioni cognitive e intellettuali. Gli unici a guadagnarci sono i detentori del capitale e i lavoratori altamente specializzati.

A questo si aggiunge il fatto che paesi come la Cina o il Brasile dipenderanno sempre meno da noi, perché a loro volta stanno diventando anche grandi mercati di consumo. La verità, ha concluso Spence, è che nel mondo occidentale abbiamo smesso di investire. Abbiamo fatto andare avanti le nostre economia puntando sui consumi finanziati con il debito. “Una scelta orripilante”, ha detto, perché così abbiamo scaricato il problema dei debiti ai nostri nipoti. Di fronte a questo scenario poco incoraggiante non ci resta che adattarci al mondo che cambia. Lo devono fare anche le istituzioni politiche, che continuano a ragionare in termini di interesse locale in un mondo in cui perde chi resta isolato, un mondo che funziona ancora con le regole di ieri.

Fondi sovrani, 31 maggio 2013

Alla facoltà di economia, ogni mattina alle dieci, si fa una piccola lezione intorno a un termine o a un’espressione. Bernardo Bortolotti ha parlato dei fondi sovrani. Bortolotti insegna economia all’università di Torino e dirige il Sovereign investment lab presso il Centro Paolo Baffi sulle Banche centrali e sulla regolamentazione finanziaria, un progetto dell’università Bocconi che raccoglie da anni tutti i dati disponibili sui fondi sovrani.

Quest’attività non dev’essere facile visto che, come ha sottolineato lo stesso Bortolotti, i fondi sovrani non ci tengono a far sapere molto di loro. Innanzitutto, non esiste una definizione ufficiale di fondo sovrano, anche se queste società esistono da molti anni (il primo fondo sovrano fu fondato nel 1953 nel Kuwait prima ancora che il paese ottenesse l’indipendenza dal Regno Unito). In ogni caso, possiamo parlare di una società che gestisce le riserve finanziarie di uno stato, quindi fondata da paesi che hanno accumulato grandi quantità di denaro. Il caso più diffuso è quello dei produttori di petrolio e gas, come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Norvegia, che mettono da parte i soldi incassati con la vendita del greggio e decidono di investirli e farli fruttare al meglio. Un altro caso è la Cina, che invece accumula denaro grazie alle esportazioni dei prodotti.

Nessuno sa esattamente quanti soldi gestiscono. Secondo alcune stime, avrebbero investito circa 3.200 miliardi di dollari (nel 2016 potrebbero diventare ottomila). Solo il fondo sovrano della Norvegia pubblica tutti i suoi dati: si sa quanto possiede, dove investe e quanto guadagna; sono pubblici perfino i verbali dei consigli d’amministrazione. I norvegesi sono però un esempio unico, anche perché molti paesi dotati di un fondo sovrano, dalla Cina al Qatar, non hanno dei regimi democratici. Il primato di fondo sovrano più oscuro del pianeta spetta alla Libia, ha aggiunto Bortolotti, ma noi italiani non ci siamo fatti particolari problemi, visto che la Lybian investment authority ha investito nel nostro paese in aziende chiave come Finmeccanica (che tra l’altro produce armi), Fiat e Unicredit. Una prima conclusione sui fondi sovrani, quindi, è che non sono tutti uguali: c’è una bella differenza tra Tripoli e Oslo.

Molti si chiedono: ma cosa fanno questi fondi? bisogna averne paura? Arrivano e comprano in blocco tutto quello che abbiamo? Sono solo operatori che investono a favore delle loro generazioni future o è gente che usa gli investimenti per conquistare influenza e peso politico all’estero? L’unico modo per capirlo è vedere dove investono. Bortolotti è riuscito a rintracciare investimenti dei fondi sovrani per circa 500 miliardi di dollari, in tutto il mondo. Cinquecento su 3.200 miliardi è un campione abbastanza rappresentativo. La sua analisi lo ha portato a “sfatare alcuni miti”. Innanzitutto, i fondi sovrani non sono “barbari del capitalismo”, che arrivano per depredare qualunque bene prezioso, e non investono nei settori strategici, a parte qualche eccezione.

Generalmente puntano sul settore immobiliare, anche se non disdegnano le banche (hanno comprato molte banche statunitensi che tra il 2007 e il 2008 stavano per fallire, affiancandosi di fatto all’intervento di salvataggio della Casa Bianca). Molti soldi, inoltre, li investono nel loro territorio o al massimo nei paesi della loro area. Un altro mito da sfatare è che i fondi sovrani non si stanno mangiando l’Italia. Dei cinquecento miliardi analizzati da Bortolotti solo 5,6 sono arrivati nel nostro paese.

Senza dubbio i fondi sovrani pongono dei problemi: è legittimo accettare investimenti da paesi che non hanno un regime democratico e violano i diritti umani? Le aziende in cui investono sono influenzate dagli stati a cui appartiene il fondo sovrano? Ricevono vantaggi rispetto ai loro concorrenti? Bortolotti dice che i soldi dei fondi sovrani non vanno rifiutati a priori, ma bisogna stare attenti e analizzare caso per caso. Accettare soldi da un paese non democratico significa esporsi ai rischi legati a quel paese. L’Italia, per esempio, ha accettato soldi dal fondo sovrano libico, ma dopo la caduta di Gheddafi le Nazioni Unite hanno congelato investimenti libici per 64 miliardi di euro, inclusi quelli in Finmeccanica, Fiat e Unicredit.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it