Nella city di Londra. (Andrew Winning, Reuters/Contrasto)
Euro: chi paga i pifferai decide la musica. Secondo Paul de Grauwe, docente della London school of economics, questo proverbio inglese è perfetto per descrivere la situazione dell’eurozona, dove i paesi creditori (quelli del Nordeuropa, primo tra tutti la Germania, in crescita e con bassa disoccupazione) impongono le loro leggi ai paesi debitori (quelli dell’Europa mediterranea, con l’aggiunta dell’Irlanda, in recessione e con disoccupazione alta). I creditori hanno finanziato per anni i debitori, ha spiegato De Grauwe, garantendo l’esportazione dei loro prodotti.
Quando i debitori non sono più stati in grado di pagare, il peso della crisi è ricaduto interamente sulle loro spalle: i creditori hanno imposto l’austerità (duri tagli alla spesa pubblica e agli stipendi) ai debitori perché trovassero i soldi per rispettare i loro impegni. L’effetto è stato l’innesco di una spirale perversa, ha detto il docente belga. Mentre nei paesi creditori non è sostanzialmente cambiato niente, in quelli debitori l’austerità ha aggravato la recessione, che a sua volta ha ridotto le entrate dello stato e ha peggiorato la situazione dei conti pubblici. Inoltre, sono diminuiti gli stipendi e i salari, e si avvicina lo spettro della deflazione, la riduzione del livello dei prezzi, che generalmente si accompagna a contrazione o stagnazione della produzione e del reddito.
Nella crisi dell’euro, ha spiegato De Grauwe, manca una soluzione “simmetrica”: decidono solo i creditori, che vogliono “punire i debitori per le loro spese folli”. Dicono che non c’è nessuna alternativa all’austerità. Sarà vero? “Per ogni debitore folle c’è almeno un creditore folle che gli ha dato i soldi”, ha detto De Grauwe. “In un sistema più equilibrato i debitori avrebbero dovuto certamente ridurre le spese, ma con maggiore gradualità. Dal canto loro, i creditori avrebbero dovuto accettare di aumentare le loro spese”. I sostenitori dell’austerità, inoltre, dicono che si tratta di una condizione temporanea: secondo De Grauwe, però, ipotizzando un avanzo di bilancio annuale pari al 2 per cento del pil, la Spagna impiegherà 25 anni per dimezzare il suo debito, l’Irlanda e il Portogallo trenta, l’Italia 32 e la Grecia cinquanta.
Il problema dell’eurozona è politico. Chi ha costruito l’euro pensava che “tutti i paesi si sarebbero mossi nella stessa direzione e allo stesso ritmo. Ma evidentemente non ci siamo mossi tutti quanti insieme”. E non esistono le istituzioni e le politiche per risolvere i problemi. La Banca centrale europea (Bce) non è il prestatore di ultima istanza che possa garantire il debito di tutti i paesi. “Quando l’Italia emette un titolo di stato è come se lo facesse in una valuta straniera di cui non ha il controllo”. In caso di difficoltà, il governo italiano non ha una banca centrale che fornisca liquidità. Questo non può succedere nei paesi che non hanno aderito all’euro, come il Regno Unito o la Svezia. “La mancanza di un prestatore di ultima istanza ha dato potere ai creditori e ai mercati finanziari. Sono loro a governare, hanno il potere di spingere un paese verso l’insolvenza”.
Cosa bisogna fare? Secondo De Grauwe, la Bce dovrebbe avere gli stessi poteri delle altre banche centrali, e i paesi dell’euro dovrebbero coordinare le loro politiche economiche. Ma, soprattutto, è necessaria una maggiore integrazione politica e più democrazia nelle istituzioni europee: “Non è possibile imporre tagli senza pagare i costi politici della decisione”. In Europa si è preferita finora “l’integrazione burocratica, che è molto più facile da realizzare”.
Il video integrale della conferenza.
Corno d’Africa: Votare con i piedi. Si è parlato di economia e migrazioni in Etiopia, Somalia ed Eritrea a una conferenza organizzata dal Centro per la formazione alla solidarietà internazionale di Trento. È intervenuto Uoldelul Chelati Dirar, eritreo, docente di storia e istituzioni dell’Asia e dell’Africa moderna all’università di Macerata. La regione del Corno d’Africa ha una popolazione estremamente giovane e in espansione (secondo l’Onu, nel 2035 l’Etiopia avrà 150 milioni di abitanti) e ottimi tassi di crescita (a parte il caso particolare della Somalia), ma allo stesso tempo registra forti flussi emigratori. Per capire lo sviluppo della regione, ha spiegato Dirar, bisogna analizzare la formazione della sua attuale classe dirigente.
Dopo il 1989 e la fine della contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il Corno d’Africa ha conosciuto profonde trasformazioni: in Etiopia è caduto il regime di stampo socialista, l’Eritrea e diventata indipendente e lo Somalia è implosa, diventando un failed state. La selezione delle nuove classi dirigenti è stata caratterizzata da un processo poco democratico: nella maggior parte dei casi, ha detto Dirar, c’è stato il passaggio diretto dai movimenti di guerriglia al governo e l’ascesa di persone che controllano i grandi flussi di ricchezza.
Il risultato, in Etiopia e in Eritrea, è stata la nascita di regimi con forti connotazioni autoritarie e dirigiste, ma ognuno con una particolare strategia. In Eritrea c’è uno “sviluppo senza fretta”, distaccato dalle dinamiche del mondo esterno. Asmara rifiuta gli aiuti esteri (nel 1997 ha espulso le ong dal paese) e ha azzerato i privati: c’è una sorta di identificazione tra lo stato e l’economia, basata sul presupposto che “il privato sia immaturo”. Lo stato ha ricostruito le infrastrutture con risorse proprie, ma sfruttando il lavoro gratuito dei cittadini attraverso il servizio civile, che alcuni – ha precisato Dirar – hanno definito una forma aggiornata di lavoro forzato.
L’Etiopia ha varato tre piani quinquennali (validi dal 2010 al 20025) con obiettivi molto ambiziosi: diventare un paese a reddito medio, autosufficiente ed ecologicamente sostenibile. Sono stati finanziati grandi progetti nel campo dell’agricoltura, delle risorse forestali, dei trasporti, delle energie rinnovabili. In Somalia, infine, lo stato non esiste: ci sono due territori autonomi (il Somaliland e il Puntland) e ampie zone controllate dagli estremisti islamici di Al Shabaab.
In tutti e tre i paesi ci sono forti flussi migratori. In Somalia si fugge dalla violenza e dalla distruzione. E in Etiopia e in Eritrea? In Etiopia, ha detto Dirar, i grandi progetti infrastrutturali e le trasformazioni agricole hanno provocato l’espulsione dalle terre di molti piccoli contadini e allevatori, che vanno all’estero in cerca di fortuna. In Eritrea, invece, fuggono giovani del ceto medio urbano, che nel loro paese non vedono alcuna possibilità di futuro e realizzazione. La destinazione principale di etiopi, eritrei e somali non è l’Europa né il Nordamerica: in gran parte vanno in Medio Oriente e in altri paesi africani. La loro scelta, ha concluso Dirar, ha conseguenze concrete nei paesi d’origine non solo dal punto di vista economico (le rimesse degli emigrati contribuiscono al 35-40 per cento del pil eritreo), ma anche sociale e politico: il loro è un “votare con i piedi”, perché vanno via rifiutando politiche che ritengono ingiuste e spesso si battono per il rinnovamento dai loro nuovi paesi.
Alessandro Lubello è l’editor di Economia di Internazionale.
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