Una sentenza della corte costituzionale tedesca sui programmi di acquisto di titoli della Banca centrale europea (Bce), il cosiddetto quantitative easing, potrebbe cambiare profondamente l’eurozona, non solo le sue politiche monetarie. Il 5 maggio i giudici della corte di Karlsruhe hanno dichiarato parzialmente incostituzionali i programmi di quantitative easing attuati dopo il 2015, in sostanza quelli approvati sotto la presidenza di Mario Draghi. Il pronunciamento non riguarda invece il nuovo programma di acquisti deciso in seguito alla pandemia di covid-19, il Pandemic emergency purchase programme (Pepp). La sentenza è arrivata in seguito ad alcuni ricorsi, secondo i quali queste operazioni sono di fatto un finanziamento diretto ai bilanci pubblici dei paesi dell’eurozona, un’operazione vietata dall’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
I programmi di quantitative easing sono stati oggetto di critiche fin dal loro esordio, soprattutto nei paesi dell’eurozona che hanno i conti pubblici in ordine, come la Germania. La Bce compra titoli di stato sul mercato secondario, cioè quelli già emessi dagli stati e in possesso delle banche. L’obiettivo è fornire liquidità agli istituti in modo che possano continuare e ampliare la concessione di crediti, stimolando le attività economiche e in particolare l’aumento dell’inflazione. Da sempre la Bce motiva gli acquisti con la necessità di riportare il tasso d’inflazione dell’eurozona intorno al 2 per cento, che è l’obiettivo primario dell’istituto. La profonda recessione causata dalla crisi cominciata nel 2008, infatti, aveva portato il tasso d’inflazione vicino allo zero, alle soglie della deflazione, una condizione sostanzialmente prossima al collasso dell’economia.
Una lunga disputa
I programmi di acquisto sono sempre stati sottoposti a regole precise: le banche centrali di ogni paese comprano i titoli del loro governo in proporzione alla propria quota nel capitale della Bce, e comunque non oltre il 33 per cento dei titoli in circolazione. Inoltre possono comprare solo titoli che abbiano un rating di buon livello. Nonostante questi paletti, il quantitative easing è stato da subito oggetto di diversi ricorsi, soprattutto in Germania. La corte costituzionale tedesca si era già occupata della questione nel 2017. In quel caso aveva rimandato tutto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, dal momento che la Bce è un’istituzione comunitaria. La corte di Lussemburgo aveva respinto i ricorsi, ma con la sentenza del 5 maggio Karlsruhe ha di fatto rigettato la decisione.
I giudici tedeschi in realtà hanno confermato che il quantitative easing com’è stato concepito sotto la presidenza Draghi non viola i trattati europei. La corte contesta piuttosto il fatto che la loro attuazione non rispetta i criteri di proporzionalità e adeguatezza rispetto ad altri ambiti del sistema economico. Si riferisce in particolare agli effetti sul bilancio pubblico tedesco e soprattutto sul risparmio, che sarebbe stato penalizzato dai bassi tassi d’interesse. La sentenza ordina quindi alla Bundesbank, la banca centrale tedesca, di smettere di comprare titoli e di prepararsi a vendere quelli già acquistati nell’ambito del quantitative easing. Prima, però, dà tre mesi di tempo alla Bce per fornire una documentazione e dimostrare che i suoi programmi in realtà rispettano i criteri di proporzionalità e adeguatezza.
“Questa sentenza”, osserva il settimanale tedesco Die Zeit, “non porterà di certo alla fine dell’euro. La Bce può facilmente dimostrare la legittimità delle sue decisioni. Ma questo è l’unico aspetto positivo di un pronunciamento confuso, euroscettico e molto discutibile dal punto di vista economico. Viene da chiedersi se i giudici di Karlsruhe sappiano cosa fanno le tremila persone che lavorano alla Bce. Secondo loro, se ne stanno con le mani in mano tutto il giorno? La politica monetaria si basa su una costante valutazione di vantaggi e svantaggi. Per capirlo bastava leggere i documenti postati sul sito della Bce sul quantitative easing. Ma forse a Karlsruhe non hanno la connessione a internet”. A proposito degli effetti negativi per i risparmiatori, i giudici hanno preferito consultare gli studi dell’associazione delle banche tedesche, particolarmente arrabbiate per la politica dei tassi a zero della Bce, aggiunge Die Zeit: “È come se si fossero pronunciati sullo scandalo delle emissioni dei motori diesel citando una presa di posizione della Daimler”.
Conflitto istituzionale
In seguito alla sentenza, la Bce ha emesso un comunicato in cui “prende nota” della sentenza, conferma il suo impegno a fare tutto il necessario per rispettare il suo mandato e ricorda che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già stabilito la piena legittimità del suo operato. Probabilmente l’istituto di Francoforte risponderà a Karlsruhe dimostrando di aver tenuto in debito conto gli effetti delle sue politiche sul resto dell’economia. La corte costituzionale tedesca potrebbe accettare la spiegazione, e tutto finirebbe lì.
Ma le cose non sono così semplici. Anche in questo caso la sentenza del 5 maggio continuerebbe a essere potenzialmente esplosiva. Innanzitutto potrebbe aprire un conflitto istituzionale. Come sottolinea il quotidiano francese Libération, “normalmente il tribunale di Karlsruhe avrebbe dovuto prendere atto della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Invece l’ha rifiutata con un tono sprezzante. Forse i giudici tedeschi pensano che spetti a loro controllare la legittimità delle decisioni della Bce. Se altre corti costituzionali nazionali si allineeranno a Karlsruhe e decideranno ogni volta se le decisioni della corte europea di giustizia gli vanno bene o meno, non ci sarà più alcuna unità di interpretazione del diritto europeo, e questo segnerà la fine della costruzione della comunità”.
Il verdetto evidenzia il punto debole dell’eurozona: il fatto che sia solo un’unione monetaria e non politica
Un altro grave problema è rappresentato dalla parte della sentenza che esclude effetti sul Pepp. Non è esattamente così. Infatti la corte di Karlsruhe ha stabilito che il vecchio quantitative easing non viola il trattato europeo perché rispetta i criteri degli acquisti fatti in base alla quota di capitale di ogni paese nella Bce, il limite del 33 per cento dei titoli in circolazione e quello del sufficiente livello di rating. Per il nuovo programma Pepp, invece, la Bce ha deciso di derogare in parte a questi princìpi, considerando il momento particolarmente grave dell’economia. È prevedibile però che nei prossimi mesi arrivino alla corte costituzionale tedesca dei ricorsi basati proprio su questo cambio di strategia. A quel punto Karlsruhe dichiarerà illegittimo il quantitative easing? E in futuro l’azione della Bce sarà condizionata da questa possibilità?
La sentenza del 5 maggio, infine, mette ancora una volta in evidenza il punto debole dell’eurozona: il fatto che sia solo un’unione monetaria e non un’unione politica. Negli ultimi anni, prima con la crisi del debito esplosa nel 2010 e ora con la pandemia, nell’eurozona gli unici veri interventi per sostenere l’economia sono stati quelli della Bce, la sola istituzione europea davvero federale. La politica non è mai riuscita a trovare un terreno comune d’azione, e non ci riesce neanche in questa crisi. Il vuoto politico ha di fatto sovraccaricato la Bce, che spesso è costretta a usare strumenti eccezionali e, secondo alcuni paesi, perfino impropri. Oggi la necessità di intervenire per affrontare la crisi senza precedenti scatenata dal covid-19 potrebbe spingere i governi europei a osare un’azione politica comune, magari usando altri strumenti legati al bilancio dell’Unione europea e discussi in sede politica, come l’atteso fondo per la ripresa.
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