Pablo Escobar con sua moglie Victoria Henao nel 1983 (Reuters/Contrasto).
Il 2 dicembre del 1993 tre proiettili – uno alla gamba, un altro alla schiena e l’ultimo dietro l’orecchio – misero fine alla fuga e alla vita di Pablo Escobar. Le forze speciali della polizia colombiana lo uccisero mentre cercava di scappare attraverso il tetto della casa dove si nascondeva, nel quartiere Los Olivos, a Medellín. In questi vent’anni è stato raccontato ogni aspetto della vita del narcotrafficante colombiano.
Sappiamo che è cresciuto in un quartiere povero della città colombiana e che ha cominciato la sua ascesa criminale rubando nei cimiteri. Sappiamo che negli anni ottanta e novanta ha trasformato Medellín nel posto più violento del mondo (nel 1991 ci furono 19 omicidi al giorno, la maggior parte causata dagli uomini di Escobar). Che è entrato nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo (secondo alcune stime, il cartello di Medellín è arrivato a guadagnare fino a cento milioni di dollari al mese). Che era così influente, popolare e sfacciato da riuscire a farsi eleggere in parlamento, nel 1982. Che si è guadagnato la fiducia e il sostegno dei poveri della città costruendo per loro interi quartieri e campi da calcio. Che era così potente da negoziare, all’inizio degli anni novanta, una detenzione dorata nel carcere/villa la Catedral. Che soffriva di manie di grandezza così deliranti da arrivare a costruire uno zoo con ogni tipo di animale tropicale nella sua Hacienda Nápoles, nei dintorni di Medellín. Ma ci sono altri aspetti meno conosciuti, alcune dei quali sono venuti fuori in questi giorni.
La lezione al presidente
Il 18 gennaio del 1988 Andrés Pastrana, candidato a sindaco di Bogotá per il Partito conservatore, fu rapito dagli uomini del cartello di Medellín. Escobar voleva usare Pastrana per fare pressioni sul presidente Virgilio Barca, che doveva decidere se approvare i trattati sull’estradizione dei criminali colombiani negli Stati Uniti. Il 28 novembre Pastrana ha pubblicato il suo libro di memorie, in cui racconta alcuni aneddoti del sequestro. Racconta, per esempio, che un giorno Escobar entrò nella sua cella insieme al cognato, Mario Henao. Pastrana era di spalle, perché Escobar non voleva rivelare la sua identità. Ma a un certo punto Henao si rivolse al suo interlocutore chiamandolo “Pablo”. Il capo del cartello capì che la sua copertura era saltata, chiese a Pastrana di voltarsi, gli strinse la mano e rimase con lui a parlare fino alle cinque del mattino.
In un’altra occasione Pastrana chiese ai suoi carcerieri cosa volessero da lui. Escobar gli disse che volevano convincere suo padre (Misael Pastrana, presidente del paese tra il 1970 e il 1974) a schierarsi contro l’estradizione. A quel punto Pastrana cominciò a fare domande sul traffico di cocaina. Escobar gli fece una lezione di quasi due ore, spiegando nel dettaglio tutti gli aspetti del narcotraffico: la semina, la produzione, il trasporto, l’esportazione e il riciclaggio dei profitti. Poi gli regalò due libri: un Guinnes dei primati e un romanzo di Jeffrey Archer. Mentre lo salutava, senza battere ciglio Escobar disse a Pastrana che il giorno dopo avrebbe sequestrato il procuratore Carlos Mauro Hoyos (che sarebbe morto nel tentativo di sequestro). Pastrana fu liberato dalla polizia il 25 gennaio e venne eletto sindaco di Bogotá. Dieci anni dopo sarebbe diventato presidente della Colombia.
Il peggior nemico
Pablo Escobar ha ordinato l’omicidio di trafficanti, poliziotti, politici, giudici. Ha fatto esplodere dei camion bomba davanti all’ambasciata statunitense a Bogotá, all’uscita della plaza de toros e di fronte agli uffici dei servizi segreti colombiani. Ma contro pochi nemici si è scagliato con la stessa violenza usata nei confronti del quotidiano El Espectador. Oltre a essere uno dei giornali più antichi del paese, El Espectador è stato anche il primo a chiedersi da dove provenissero i soldi con cui Escobar comprava terreni e aziende a Medellín, finanziava la sua carriera politica e costruiva campi da calcio e interi quartieri per i poveri della città.
Nel giugno del 1976, molto prima che Escobar diventasse il più famoso trafficante della storia, il giornale aveva pubblicato un breve articolo che dava notizia di sei piccoli trafficanti arrestati nella località di Itagüi. Uno di loro era Escobar, che all’epoca aveva 27 anni. Il giornale ritirò fuori quella notizia e quella foto all’inizio degli anni ottanta, quando Escobar si candidò a un seggio in parlamento, e questo segnò l’inizio della fine della carriera politica del narcotrafficante, che da quel momento fece sempre più fatica a nascondere le sue attività criminali. Ma segnò anche l’inizio della fine di Guillermo Cano, storico direttore del giornale, che il 17 dicembre del 1986 fu assassinato dagli uomini di Escobar con otto colpi di mitragliatrice nel petto. Cano aveva 61 anni, di cui 44 passati a lavorare nella redazione dell’Espectador, dove era entrato a 17 anni.
Tre anni dopo Escobar cercò di far saltare in aria l’intera redazione. Alle 6.30 di un sabato mattina un furgone con 135 chilogrammi di dinamite a bordo distrusse buona parte degli uffici del giornale, che comunque riprese quasi subito le pubblicazioni. Oggi El Espectador resta un quotidiano indipendente, e probabilmente il migliore del paese.
L’intervista mai andata in onda
Il 29 novembre del 2013 l’emittente radiofonica Rcn La Radio ha pubblicato un’intervista al boss realizzata dall’attuale direttrice Yolanda Ruiz e mai andata in onda. È stata registrata nel 1988, quando Escobar era l’uomo più potente e più ricco del paese ma anche il più ricercato, e non poteva dormire più di due giorni nello stesso posto.
Fino a quel momento aveva già ucciso, nell’ordine: il ministro della giustizia Rodrigo Lara Bonilla (1985), il magistrato Hernando Baquero (1986), il capo della polizia Jaime Ramírez (1986). E nei mesi e negli anni successivi avrebbe ucciso, nell’ordine: la giudice María Helena Díaz (1989), il colonnello della polizia Valdemar Franklin (1989), il candidato alla presidenza Luis Carlos Galán (1989). Ma nell’intervista il capo del cartello di Medellín parla di se stesso come di un uomo perseguitato da un potere corrotto che opprime il popolo colombiano, uno dei pochi imprenditori rimasti a mandare avanti l’economia di un paese allo sbando, accusato di crimini che non ha commesso.
Nell’intervista Escobar parla delle accuse “ingiuste” che gli vengono rivolte, della legalizzazione delle droghe – secondo lui inevitabile –, della corruzione nel sistema politico ed economico colombiano, dell’apporto del narcotraffico all’economia nazionale – le uniche imprese che producono ricchezza e creano posti di lavoro. Parla della questione dell’estradizione dei criminali colombiani negli Stati Uniti come della lotta di un piccolo paese per mantenere la sua sovranità di fronte a una potenza arrogante che viola i diritti dei “compatrioti” colombiani. Sminuisce la tremenda guerra del suo cartello contro quello di Cali – “una faccenda su cui si è speculato troppo”. Fa continui riferimenti alla volontà popolare e critica le istituzioni che non hanno interesse e soddisfare i bisogni dei cittadini.
In basso trovate l’mp3 dell’intervista integrale. Qui invece la trascrizione.
Qui l’articolo in cui Yolanda Ruiz che racconta come ha ottenuto e realizzato l’intervista.
[Qui][3] un bell’articolo dello scrittore colombiano Héctor Abad per i vent’anni dalla morte di Pablo Escobar.
Alessio Marchionna lavora a Internazionale dal 2009. Editor delle pagine delle inchieste, dei ritratti e dell’oroscopo. È su twitter: @alessiomarchio
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