Darren Wilson, l’agente di polizia di Ferguson che il 9 agosto ha ucciso Michael Brown, un ragazzo disarmato, non sarà processato. La decisione del grand jury di St. Louis non ha sorpreso nessuno. Se l’aspettava la polizia locale, che da settimane si organizzava per far fronte alla possibilità di nuove proteste, se l’aspettava Jay Nixon, il governatore del Missouri, che la settimana scorsa ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha mobilitato la guardia nazionale, e se l’aspettavano i cittadini neri di Ferguson, che da mesi si preparavano per uno scenario del genere.
Le prove che hanno portato il grand jury a prendere questa decisione non sono state rese pubbliche. Al momento non ci sono molti elementi per farsi un’idea precisa di come siano andate le cose quel pomeriggio del 9 agosto. Dal poco che è stato rivelato, sappiamo che subito dopo il fatto Wilson si è presentato in ospedale con dei lividi sul volto (qui ci sono le foto), che i presenti hanno fornito testimonianze discordanti – alcuni dicono che Brown si fosse lanciato contro l’agente, altri che stesse cercando di arrendersi quando Wilson ha aperto il fuoco – e che il poliziotto ha colpito Brown almeno sei volte, di cui una da distanza ravvicinata (sul corpo del ragazzo sono state trovate tracce di polvere da sparo), segno che l’omicidio potrebbe essere stato preceduto da uno scontro corpo a corpo.
La storia recente degli Stati Uniti è piena di episodi di neri – spesso disarmati, a volte minorenni – uccisi da poliziotti bianchi. In pochi casi gli agenti sono stati incriminati, e anche quando è successo i processi si sono conclusi con assoluzioni piene o con condanne lievi. Anche quando le prove contro i poliziotti erano molto più pesanti di quelle contro Wilson. Nel 1999 a New York quattro agenti bianchi uccisero con 19 colpi di pistola Amadou Diallo, un venditore ambulante originario della Liberia che stava tornando a casa dal lavoro. I poliziotti dissero che Diallo corrispondeva alla descrizione di un uomo ricercato per stupro, e che pensavano che stesse tirando fuori un’arma. In realtà stava cercando il portafoglio. I quattro agenti furono prosciolti da ogni accusa e restarono in servizio.
La rabbia scatenata dalla decisione del grand jury continuerà ad alimentare le proteste ancora per molto. Nei prossimi giorni vedremo migliaia di persone manifestare – più o meno pacificamente – in tutta la contea di St. Louis e in altre città degli Stati Uniti. Le autorità locali e nazionali condanneranno le degenerazioni violente delle proteste e chiederanno alla comunità nera di Ferguson di prenderne le distanze e di accettare la sentenza del grand jury. Qualcuno cercherà di chiudere il caso dicendo – come ha fatto l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani qualche giorno fa – che la vicenda di Michael Brown non ha niente a che fare con questioni razziali e che le violenze della polizia contro i neri sono meno e meno preoccupanti dei crimini commessi dai neri contro altri neri.
Si continuerà a ignorare il punto centrale di questa storia: le discriminazioni – passate e presenti – che hanno portato alla segregazione in cui vivono oggi molte delle comunità a maggioranza afroamericana della contea di St. Louis. A partire dalla prima metà del novecento, le autorità locali hanno sistematicamente cercato di tenere i neri lontani dai bianchi e dalle opportunità economiche attraverso piani urbanistici che li relegavano in sobborghi che col tempo si sono trasformati in ghetti violenti. Nei decenni seguenti le discriminazioni, almeno quelle ufficiali, sono diventate più sfumate, ma questo non significa che i neri abbiano potuto scegliere dove vivere.
A partire dagli anni ottanta molti bianchi dell’area di St. Louis si sono trasferiti verso sobborghi più ricchi e più sicuri, lasciando agli afroamericani le zone più povere e degradate. Oggi la contea di St. Louis è una regione dove i confini demografici cambiano continuamente ma l’omogeneità razziale, e quindi la segregazione, persiste. Questo spiega, per esempio, perché a Ferguson, dove la maggioranza della popolazione è nera, quasi tutti gli agenti di polizia e i rappresentanti politici sono bianchi.
La morte di Michael Brown ha ricordato a tutti quanto questa situazione sia insostenibile. Ed è per questo che le proteste continueranno.
Alessio Marchionna è l’editor di Stati Uniti di Internazionale.
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