Sono a Praga. È ora di smettere di scrivere sul cibo. C’è una bancarella che vende pasta di pane dolce avvolta intorno a un cilindro di metallo, cotta al forno e poi ricoperta di zucchero.
Il vapore sale su dal cilindro come fumo da un camino ottomano. Sono nella piazza principale, vicino all’orologio astrologico. È sul lato di una chiesa, in uno strano miscuglio di superstizione e religione. Ci sono quindici persone in coda per i camini dolci, quando il venditore annuncia che sta per chiudere. Ha finito la pasta. La delusione si diffonde lungo la fila come un domino e raggiunge due ragazzine inglesi con la faccia rosea e gli zaini pesanti.
È troppo per loro. Si spingono fino al banco, dove vengono consegnati gli ultimi camini. Hanno il tipico senso di fiducia di chi viene da una scuola privata. La ragazza numero uno fissa il venditore con il naso rivolto all’insù e uno sguardo da maestrina. Abbaia come la moglie di un vicario.
“Lei non può chiudere! Partiamo domani!”.
Il venditore le lancia un’occhiata.
“Ho detto che partiamo domani!”.
La ragazza numero due fa una faccia affamata che sembra dire “per favore” come un cane che aspetta sotto la tavola. “Mi dispiace, non ne abbiamo più”, dice il venditore.
“Dio mio, non riesco proprio a capire queste persone”, sbuffa la ragazza numero uno, mentre volta le spalle ai camini. Su questo ha proprio ragione. Non so quante volte Praga sia stata invasa, ma stasera sembra invasa da idioti: idioti britannici, idioti tedeschi, idioti nordafricani e idioti americani. Un turista sui vent’anni sta spiegando a un’altra turista sui vent’anni che lui non è un turista: è un “viaggiatore”.
Hanno una cartina aperta sul tavolino davanti a loro, accanto alla traduzione in inglese del menù. Lui sta dicendo che la sua esperienza è più profonda. Ma parla, odora e agisce come un turista. Non capisco. Solo perché sta in un ostello anziché in un hotel, allora la realtà è più reale? O è solo un idiota? Io sono un turista.
Faccio un tour del mondo come turista. Non sento di dovermi scusare. L’aspetto del viaggio non mi piace. Nella mia mente si tratta di stare intorno ai nastri trasportatori dei bagagli, sperando che la mia valigia non si sia persa di nuovo. Ovviamente sono solo un turista. Non godo della prospettiva interna. Mi sento uno straniero ovunque io vada.
Ma mi piace quella prospettiva. Nei ristoranti adoro sedermi con la schiena rivolta al muro per poter osservare gli altri clienti. Vedo in tempo reale quello che gli autori e i registi cercano di catturare. Ma il fatto di essere turisti non significa che ci si debba comportare in modo maleducato. Se mai, bisognerebbe comportarsi meglio del solito.
Due grandi cliché britannici sono: 1) la presunzione che quando ti trovi in un paese straniero puoi fare quello che cavolo ti pare; 2) l’idea che se si fa parte di una band sia obbligatorio comportarsi come un criminale maleducato. Il posto in cui si svolge il festival somiglia a un centro vacanze per austronauti abbandonato. Alcune tegole smosse cadono nella piscina per bambini. La sedia arrugginita dell’arbitro è caduta sul campo da tennis coperto di vegetazione.
Nell’oscurità del bosco circostante ci sono ombre di edifici che avrebbero potuto essere dormitori o stanze per i test sulla forza centrifuga. Alcuni altoparlanti trasmettono le versioni dell’ex blocco sovietico di classici della musica pop, cantati da morbide voci ceche. Ci sono un enorme spiedo saldato a mano e un braciere.
Il fuoco si è ridotto a braci regolari e due uomini grugniscono mentre sollevano un enorme spiedo coperto di carne su un sistema di ruote collegato a un vecchio motore. La carne deve pesare più di loro due messi insieme. Sembra incredibile, come un banchetto medievale organizzato a metà del ventesimo secolo. I Ministry si stanno preparando sul palco numero uno. Un tecnico monta l’asta del microfono decorato con un teschio.
I Pet Shop Boys stanno allestendo il palco numero due. Stanno studiando il modo in cui far sbucare i ballerini dal cubo di luce bianca al neon. Noi siamo da qualche parte nel mezzo. Tra due settimane suoneremo al festival di Reading e Leeds: l’apice di un anno e mezzo di tournée. È stata un’avventura intensa: trascinarsi per il pianeta, esibirsi davanti a milioni di persone. Ogni sera, quando salgo sul palco buio, le luci bianche stroboscopiche e il rumore bianco della folla mi pompano l’adrenalina fino al cuore, provocando un’esplosione vascolare che potrebbe quasi uccidermi.
Il sangue sembra esplodere dalla punta delle dita. Prima che il plettro scorra sulle corde, i piedi mi hanno già lanciato in aria, facendomi librare sul palco in uno scatto d’emozione. È ora di smettere. Si può suonare la stessa canzone solo un certo numero di volte prima di stufarsi.
È ora di smettere perché ho bisogno di vivere in un posto che non sia un pullman o un hotel. È ora di smettere di viaggiare, per cui è ora di smettere di scrivere sul cibo. Quello che mangio a casa non è interessante. Sono le stesse cose che mangiano tutti.
Internazionale, numero 659, 14 settembre 2006
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