Sono ancora addolorata per la mia cacciata da Gaza. La distanza sembra più incolmabile che mai. “Mimi, Mimi”: ho saputo che la figlia più piccola dei miei due amici, due anni, ancora mi cerca. I suoi fratelli possono capire la mia scomparsa improvvisa, ma a lei hanno detto che ero “al lavoro”. E sono addolorata per le tante storie che avrei voluto raccontare.
Eccone alcune:
Un’ebrea israeliana, dipendente di un ministero, che avevo conosciuto anni fa. Era sposata da anni con un abitante di Gaza convertito all’islam. La conoscenza dell’ebraico era molto utile per il suo lavoro. Avevo perso ogni contatto con lei. Di recente, per caso, mi ero imbattuta in uno dei suoi parenti. Mi ha detto che è una sostenitrice di Hamas.
Un esponente religioso di cui non ricordo il nome. Era un musulmano salafita e sosteneva la totale astensione dalla violenza (a differenza di quei salafiti-jihadisti che la venerano).
Un comitato di attiviste di Hamas. L’incontro doveva essere organizzato da una deputata del consiglio legislativo palestinese.
Una classe di studentesse tredicenni dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti ai rifugiati palestinesi). La loro insegnante gli aveva parlato di me ed erano curiose di conoscere “un’ebrea”.
Un gruppo di giovani membri di Hamas, che puntano all’autosostenibilità economica.
Un mediatore sociale specializzato nel risolvere le dispute sui tunnel a Rafah.
La famiglia di un giovane ucciso mentre lavorava in uno di questi tunnel.
E poi mi manca l’umorismo nero di Gaza. Per gli abitanti della Striscia le battute sono come il respiro. Una volta sono finita in mezzo a un gruppo di uomini d’affari (senza lavoro), che nel tempo libero studiavano l’ebraico. Mi sono commossa, ma gli ho detto che si illudevano. “Dovremmo forse studiare il francese?”, mi ha chiesto uno di loro. Un suo amico mi ha preceduto: “No, l’egiziano”.
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