In questi giorni a Ramallah stanno nascendo vari gruppi giovanili. Così ho chiesto a due attivisti, figli di un mio amico, di spiegarmi la situazione. Li ho raggiunti nel loro appartamento, dove vivono insieme a E. Grazie a loro ho potuto stilare una mappa dei nuovi gruppi, che puntano a costruire una nuova rappresentanza per il popolo palestinese.
Tempo fa hanno incontrato un attivista statunitense, che auspicava l’avvento di un Gandhi palestinese. “E se noi palestinesi non volessimo un Gandhi? E se volessimo la lotta armata?”, aveva ribattuto E. Nella mia intervista sono partita da qui: “Forse avete diritto alla lotta armata, ma vi rendete conto del male che ha fatto alla causa palestinese negli ultimi dieci anni?”. “Non puoi accusarci di fornire pretesti all’occupazione. Israele è uno stato imperialista che non ha bisogno di pretesti per prendersi la nostra terra. E comunque lotta armata non significa attentati negli autobus”, ha risposto E.
“Perché non partecipate alle proteste che si svolgono ogni venerdì contro il muro di separazione e gli abusi dell’esercito israeliano?”, ho chiesto. “Perché sono strumentalizzate da Al Fatah”, ha risposto E. “Perché il venerdì mi sveglio tardi”, ha detto S., il più giovane dei due fratelli. “Ma queste manifestazioni preoccupano l’esercito più della lotta armata”, ho detto. “Questo lo dici tu”, ha risposto E. Prima che andassi via, E. ha promesso che la prossima volta mi inviteranno a pranzo: “Siamo ottimi cuochi”.
Internazionale, numero 891, 1 aprile 2011
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