L’altro giorno ero seduta in un caffè di Gerusalemme con un amico fotografo. Discutevamo delle differenze tra scrivere e fotografare. A un certo punto il cameriere si è rivolto a me: “Bella sciarpa”. Intorno al collo avevo una kefiah a scacchi rossi. “È del Fronte popolare”, ha aggiunto. In realtà la indossano anche i beduini di cui vi ho parlato la settimana scorsa, e sono sicura che non fanno parte dell’organizzazione nazionalista di sinistra. “Anche quelli della Jihad islamica indossano kefiah rosse”, ho risposto. Questo scambio di battute è avvenuto in ebraico, come la domanda successiva del cameriere: “Sei palestinese?”. Ho risposto in arabo: “Per metà”. Abbiamo continuato a parlare in arabo, e al tavolino si sono aggiunti altri due camerieri. Hanno la fortuna di avere i permessi per venire a lavorare a Gerusalemme.

Abbiamo chiacchierato a lungo. “Ormai tutti i palestinesi sono favorevoli a una soluzione a due stati”, ha detto il primo cameriere. Gli ho spiegato che avevo l’impressione opposta: “Mi sembra che i giovani vogliano una grande Palestina, in cui non c’è posto per gli ebrei”. Ci ha pensato su e poi ha risposto: “Forse hai ragione. Diversamente da me, gli unici ebrei israeliani che incontrano i nostri ragazzi sono soldati o coloni. Non sanno che qui c’è una società normale. Mio figlio non ha mai visto il mare, non è mai stato a Gerusalemme. Come possono essere cittadini di uno stato amico le stesse persone che gli impediscono di vedere Gerusalemme?”.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 942, 30 marzo 2012*

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