La lettera della procura militare arrivata martedì non avrebbe dovuto sorprendermi: un ufficiale informava il centro palestinese per i diritti umani che il caso Samouni è chiuso. Si tratta di un procedimento condotto dall’esercito contro alcuni soldati per la morte di 21 civili palestinesi, tra cui nove bambini. La lettera dice “morte”, ma noi sappiamo che si è trattato di omicidio. Non c’era intenzione di fare del male, prosegue la lettera, e quindi non è un crimine di guerra. E non si può parlare nemmeno di negligenza, quindi la storia finisce qui.

Il 4 gennaio 2009, durante l’operazione Piombo fuso, l’esercito israeliano ha ordinato a circa cento persone del clan Samouni di lasciare le loro case in un quartiere a sudest di Gaza, e di radunarsi in un edificio di proprietà di un parente. Lì si sentivano al sicuro. Il 5 gennaio alcuni uomini sono usciti dall’edificio in cerca di legna da ardere per cucinare. Nella sala di controllo dell’esercito israeliano, davanti a uno schermo che trasmetteva le immagini registrate dai droni, un ufficiale ha visto alcuni uomini che trasportavano lunghi oggetti. Ha deciso che erano razzi e ha ordinato il bombardamento. Un uomo è morto, gli altri si sono rifugiati in casa. A quel punto i missili, intelligenti, si sono abbattuti sulla casa.

Avrò scritto più di trenta articoli sul massacro dei Samouni. Speravo che la pubblicità data alla vicenda avrebbe costretto l’esercito ad ammettere le sue responsabilità. Figuriamoci.

*Traduzione di Andrea Spracino.

Internazionale, numero 947, 4 maggio 2012*

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