Negli ultimi giorni ho rinunciato a seguire gli sviluppi politici. Niente demolizioni di case palestinesi, niente intervista di Abu Mazen in cui sembra voler rinunciare al ritorno dei palestinesi in Israele. Invece, insieme a pochi altri, ho seguito gli eventi della Biennale palestinese, intitolata Qalandiya international, arte e vita in Palestina.

Un giornalista straniero, che aveva sentito parlare della Biennale per puro caso, si lamentava: “Ma questo non è un ponte” (intendeva un ponte verso altri popoli).

Brusca come sono, l’ho interrotto: “Certo che no. Le persone non creano pensando che possa essere utile. Non dipingono, scolpiscono o sviluppano il loro particolare linguaggio artistico per piacere agli altri. I palestinesi non creano perché così gli israeliani smetteranno di considerarli solo dei terroristi. Non c’è niente di strano che anche in Palestina ci siano degli artisti”.

Dieci anni fa i giovani artisti palestinesi ricorrevano molto all’astratto. In questa Biennale, invece, ho avuto l’impressione di eccessi di verbosità: le opere esposte erano accompagnate da troppe spiegazioni. Ho una mia teoria. Il trauma dello strapotere israeliano, e la conseguente capacità di Israele di distruggere la vita quotidiana dei palestinesi frustrando ogni speranza d’indipendenza, fa sentire i palestinesi, e quindi anche gli artisti, incompresi e inascoltati. Di qui il desiderio di spiegarsi a tutti i costi. E quindi sì, i palestinesi stanno davvero cercando di costruire un ponte verso l’esterno.

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