Eravamo quattro israeliani in visita a una comunità remota che non si trova neanche sulle mappe. È sempre la stessa storia: una comunità di pastori e agricoltori alle prese con un ordine di sfratto, in questo caso tra le colline a sud di Hebron, in Cisgiordania.
Gli anziani della comunità, delle famiglie Battat e A Tel, sono nati nelle grotte di queste colline, tra le rovine di un insediamento bizantino-musulmano. Oggi quei resti archeologici hanno convinto le autorità israeliane a chiedere alla comunità di abbandonare le loro case di pietra e le loro tende. È la legge dell’occupazione: gli esseri umani non contano niente.
Quando siamo arrivati faceva un caldo secco, e il vento entrava nelle case. “Meglio dell’aria condizionata”, ha detto Abu Raed, 59 anni. Nonostante il Ramadan ci hanno offerto tè e
faqqus, una specie di cetriolo che viene piantato tra marzo e aprile. Il suolo ha assorbito la neve caduta in inverno, e quest’anno il faqqus è particolarmente dolce. Siamo lì per parlare di una petizione contro lo sfratto degli abitanti del villaggio.
Oltre a me e al fotografo di Ha’aretz, ci sono due impiegate dell’ong israeliana Acri. Una di loro è emigrata dall’ex Unione Sovietica, e la sua lingua madre è il russo. Il fotografo è nato nell’attuale Azerbaigian. L’altra impiegata è un’ebrea siriana emigrata in Israele nel 1985. Siamo tre immigrati e una figlia di immigrati che si godono la libertà, il cibo e il denaro che vengono negati agli abitanti storici del luogo.
Traduzione di Andrea Sparacino
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