Stamattina mi ha telefonato Musa, un operaio edile di Dura, a sud di Hebron. L’ho conosciuto quasi due mesi fa, alle tre del mattino, mentre ero in coda al checkpoint di Tarqumiya con i palestinesi che vanno a lavorare in Israele. Avevo saputo delle condizioni umilianti, della calca soffocante e dell’arroganza del personale israeliano, e così sono andata a verificare insieme a due attiviste di Machsomwatch e al fotografo di Ha’aretz.
Il checkpoint – un labirinto di filo spinato, tornelli, porte elettromagnetiche e celle con vetri scuri e sbarre di ferro – apre alle 3.50. I lavoratori cominciano ad arrivare verso le due nella speranza di essere tra i primi a passare. Mi sono messa in fila insieme ai lavoratori, poi una guardia mi ha ordinato di farmi da parte. Avevo già superato due o tre tornelli, ma non mi hanno permesso di entrare nelle celle dove alcune persone scelte a caso sono costrette a sottoporsi a controlli più stretti. Per attraversare il checkpoint ci vogliono tra i venti minuti e l’ora e mezza.
Musa è il filosofo del gruppo: con me non ha voluto dilungarsi sui dettagli personali, ma ha preferito fare appello al buonsenso israeliano: “Quando qualcuno compra un oggetto lo vuole nuovo e funzionante, giusto? Voi israeliani comprate la nostra manodopera per costruire le vostre città, ma quando arriviamo siamo già stanchi morti. Qual è la logica?”. Stamattina Musa mi ha chiamato per farmi sapere che ora il personale del checkpoint si comporta in modo un po’ più gentile.
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