Nella stessa giornata ho ascoltato due amici, uno di Ramallah e l’altro di Gaza, pronunciare frasi simili. Il primo, già in pensione, fa parte di un gruppo palestinese di sinistra. Il secondo, nato in un campo profughi, è un attivista dei diritti umani. Entrambi scrivono post e articoli critici nei confronti di Hamas e Al Fatah. Il 10 settembre – uno in un caffè di Ramallah, l’altro al telefono – hanno espresso un concetto simile: “Non posso parlar male della Giordania”, ha ammesso il primo. “Non posso parlar male dell’Egitto”, mi ha confidato il secondo.
Se lo facessero rischierebbero di perdere l’unico accesso al mondo esterno. Il relativo aumento della mobilità di cui hanno beneficiato i gazani negli ultimi due anni, dopo la rivoluzione egiziana, ha avuto un enorme impatto sul loro umore. La sensazione di trovarsi in gabbia era diminuita, anche se percorrere gli 800 chilometri per arrivare al Cairo è rimasto un privilegio per pochi. Dopo la caduta di Morsi, però, l’esercito egiziano ha accusato Hamas di sostenere i ribelli islamici e ha rafforzato i controlli al valico di Rafah.
L’unica via d’uscita a disposizione del mio amico di Ramallah è invece il ponte Allenby, al confine giordano-israelo-palestinese. Per migliaia di palestinesi questo rimane l’unico accesso al mondo esterno. Ma le autorità giordane hanno la memoria lunga (anche perché sono assistite dai servizi israeliani) e torchiano a lungo chi osa criticare la monarchia. L’unica soluzione è l’autocensura.
Traduzione di Andrea Sparacino
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