La settimana scorsa, durante uno dei miei interventi a Washington, ho incontrato un uomo dall’aspetto familiare. Era uno statunitense, ebreo, che avevo conosciuto mentre partecipava a una missione governativa in Israele e Palestina.

“Gli americani ignorano che i palestinesi vivevano in quelle terre già nell’ottocento, prima dell’inizio dell’immigrazione sionista, e non sanno niente dei villaggi distrutti nel 1948”, ha spiegato a me e agli altri partecipanti all’incontro.

A un certo punto ha addirittura usato la parola “coloniale” per descrivere la politica israeliana. Considerando che i funzionari statunitensi non possono neanche usare il termine “occupazione”, sono rimasta sbalordita. Gli ho chiesto se aveva già questa opinione prima di venire in Medio Oriente. Mi ha risposto di no: “Quando mi hanno coinvolto nella missione ero convinto che tutti i palestinesi fossero terroristi”.

Negli stessi giorni ho ricevuto un’email di una studentessa ebrea di New York, che si è scusata per non aver potuto partecipare a un mio incontro. Mi ha raccontato una storia simile a quella del funzionario. All’inizio non riusciva a capire come io, figlia di sopravvissuti dell’olocausto, potessi essere così sfacciatamente filopalestinese. Ma poi aveva visitato i Territori occupati e aveva aperto gli occhi.

Questi due episodi mi hanno messo di buonumore. Solo chi non ha visto le cose di persona può pensare che il dominio israeliano sia benevolo e legittimo.

Traduzione di Andrea Sparacino

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