C’è un furgoncino con dei grandi altoparlanti che gira per le strade di Ramallah. Trasmette delle canzoni nazionaliste, cercando di rompere l’atmosfera laboriosa che si respira in città e di risvegliare lo spirito ribelle dei suoi abitanti.

Sarebbe ingiusto dire che gli abitanti della Cisgiordania vivono in maniera distaccata l’incubo infinito di Gaza. In migliaia hanno donato vestiti, materassi, acqua, cibo per aiutare le centinaia di migliaia di persone rimaste senza casa a settanta chilometri di distanza. La radio trasmette un programma quotidiano intitolato “Ponti con Gaza”. È stato necessario che duemila persone morissero e che più di diecimila rimanessero ferite per avvicinare gli abitanti della Striscia a quelli della Cisgiordania. Una considerazione cinica, ma vera. In ogni caso la sensazione di impotenza è enorme. Con tutto il rispetto per i materassi e le taniche d’acqua regalate, la Cisgiordania è rimasta relativamente tranquilla.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con questa guerra intendeva mandare all’aria i tentativi di riconciliazione tra le fazioni palestinesi, ha ottenuto esattamente il contrario. I leader di Hamas e di Al Fatah, nonostante le loro divergenze, hanno formato un’unica squadra di negoziatori al Cairo. Hamas non avrà saputo trasformare i suoi successi militari in progressi politici, ma è ancora vista dalla maggioranza dei palestinesi come l’organizzazione che ha ridato orgoglio e dignità alla causa nazionale. Ecco un altro errore dei politici israeliani.

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