Il 25 novembre si stava quasi comodi nella grande tenda allestita per il lutto nel quartiere Jabal al Mukabber, a Gerusalemme Est. I partecipanti, seduti su delle sedie di plastica, scambiavano quattro chiacchiere con parenti e amici.
Naturalmente la situazione di calma apparente non può nascondere lo stato di allarme permanente in cui vivono queste persone. Per questo non hanno voluto parlare con me, una giornalista israeliana, del recente attacco alla sinagoga di Gerusalemme, che ha causato la morte di cinque ebrei e di un poliziotto druso.La tenda non sarà smontata fino a quando i due cugini palestinesi responsabili dell’attentato non saranno stati sepolti.
Il problema è che Israele rifiuta di consegnare i loro corpi, perché teme che un eventuale funerale possa farli apparire come dei modelli da imitare. Così il governo israeliano si limita a portare avanti i suoi propositi di vendetta: le case dei familiari degli attentatori saranno demolite, alla moglie di uno dei due sarà revocato il permesso di soggiorno e il quartiere sarà sottoposto a una stretta sorveglianza.
Ogni giorno la polizia perlustra le strade del quartiere sparando gas lacrimogeni contro i giovani e impone multe per qualsiasi violazione delle regole municipali (un anziano è stato punito perché teneva della legna nel cortile). Gli uomini riuniti sotto la tenda hanno detto che faranno il possibile per difendere la moschea Al Aqsa. La rabbia palestinese cova sotto la cenere, e qualche volta esplode.
Traduzione di Andrea Sparacino
Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2014 a pagina 34 di Internazionale, con il titolo “Calma apparente”. Compra questo numero | Abbonati
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