Il suo nome è Jovana, ha dieci anni e suona il violino in modo limpido e sicuro. La custodia del suo strumento si riempie rapidamente di dinari, lasciati dalle persone che percorrono le strade dello shopping a Belgrado, in Serbia. La giovane madre (due croci al collo e un’altra bambina piccola tra le braccia) osserva la sua piccola violinista con l’aria soddisfatta. Devono coprire i costi di un concorso a cui la bambina ha partecipato l’anno scorso in Italia.
Jovana ha cominciato a studiare il violino tre anni fa. La madre non lavora. Il padre cerca di tirare avanti come può. Nella stessa strada ci sono almeno altri quattro musicisti, compresa un’altra bambina violinista. Ma nessuno riceve le attenzioni di Jovana. Qui le persone sono gentili, mi spiega il giovane coordinatore del mio intervento a una conferenza. Ma sotto la superficie il nazionalismo è in forte crescita.
Qualche giorno prima ho visto Vojislav Šešelj, sotto processo al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aja, aizzare una folla di nazionalisti davanti agli edifici di Belgrado bombardati dalla Nato nel 1999. Non ho chiesto al tassista cosa pensasse di questo comizio e invece l’ho lasciato parlare: “Oggi Belgrado non è come trent’anni fa”. “In che senso?”. “È piena di immigrati dalla Bosnia, dalla Croazia e dal Montenegro”. “Ma sono sempre serbi, no?”. “Sì, ma sono come gli indiani negli Stati Uniti”. Sono rimasta stupita, ma non avevo idea di cosa intendesse. Poi ha chiarito: “Sono tutti stupidi”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato il 3 luglio 2015 a pagina 30 di Internazionale, con il titolo “Sono tutti stupidi”. Compra questo numero | Abbonati
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