Il salone, in uno dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, era pieno di donne indaffarate: una parrucchiera, un’assistente, una ragazza intenta a curare le unghie di una futura sposa. Tre donne avevano i capelli coperti da uno scialle, mentre le altre li tenevano in vista. Mi sono fatta tagliare i capelli, anche se non era il motivo principale della visita. Il proprietario del locale e sua sorella sono stati perseguitati dalla polizia israeliana e incarcerati ingiustamente. Dopo il loro rilascio la sorella ha presentato un esposto contro un agente, che in risposta l’ha multata per violazione del codice della strada.
La loro vita è condizionata dagli insediamenti. Hanno altre sorelle: una lavora in un insediamento per un’azienda gestita da un palestinese della Cisgiordania e da un araboisraeliano. E parla del suo lavoro come fosse la cosa più naturale del mondo. L’altra ha già lavorato in un salone in un insediamento: le sue clienti erano israeliane.
A differenza della maggioranza dei palestinesi di Gerusalemme, che preferiscono restare semplici residenti, il padre ha chiesto la cittadinanza e loro sono nati con il passaporto israeliano. Questo spiega il modo in cui il figlio e la figlia hanno affrontato il poliziotto. Entrambi parlano bene l’ebraico e hanno amici ebrei. La politica è l’ultima delle loro preoccupazioni. Solo il loro vecchio padre mi ha chiesto: “Quanto durerà ancora l’occupazione? Israele non capisce che tutto questo non porterà a nulla?”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questa rubrica è stata pubblicata il 18 dicembre 2015 a pagina 27 di Internazionale, con il titolo “Dal parrucchiere”. Compra questo numero | Abbonati
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