Prima ancora che salisse in macchina, sapevo che quell’uomo di mezza età lavorava in Israele. Chi altro sarebbe rimasto lì ad aspettare sulla curva di una strada vicino a Ein Arik alle quattro del mattino? Stavo andando all’aeroporto per partecipare a un breve seminario a Madrid. Uscendo da casa avevo già liberato i sedili della macchina dal solito caos (fogli, libri, bottiglie vuote) per poter caricare eventuali lavoratori palestinesi diretti in Israele. L’uomo non ha neanche alzato la mano, ma mi sono fermata lo stesso. Non era sorpreso. Le prime luci dell’alba rafforzano i legami di fiducia e solidarietà.
Ein Arik è un villaggio metà musulmano e metà cristiano che ospita un piccolo campo profughi informale di cui ho scoperto l’esistenza nove anni fa, da una donna a cui avevo dato un passaggio. Quando gli abitanti del villaggio furono espulsi, nel 1948, inizialmente si trasferirono nel campo profughi di Qalandia, ma poi la carenza di acqua li spinse a cercare un’altra sistemazione.
L’uomo a cui ho dato il passaggio esce di casa la mattina presto per evitare la folla al checkpoint, ma poi deve aspettare due ore l’autista che lo porta nel cantiere dove lavora. “Perché non scrive qualcosa sul checkpoint?”, mi ha chiesto riferendosi alle umiliazioni inflitte dalle forze di sicurezza private che lo gestiscono. La mia risposta mi ha fatto quasi vergognare: “Me ne sono occupata spesso. La situazione è migliorata leggermente per una settimana, ma poi tutto è tornato come prima”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questa rubrica è stata pubblicata il 25 novembre 2016 a pagina 33 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati
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