Mi hanno detto che i suoi libri non si trovano nelle librerie della Cisgiordania. Bisogna andare direttamente alla casa editrice ad Haifa, in Israele. Lo conoscevo in modo superficiale, sapevo poco di lui a parte che indossava una sciarpa a scacchi rossi e aveva una sigaretta sempre accesa, eredità della sua vita bohemienne. Alcune cose le ho scoperte questa settimana, quando insieme al mio amico M hanno ricordato i tempi dell’università, quando era ricercato per la sua attività politica.

È un rifugiato del 1967, originario di uno dei villaggi dell’enclave di Latrun, che Israele distrusse dopo aver costretto gli abitanti ad andarsene. All’epoca aveva sette anni. Il padre lavorava a Gerusalemme e i familiari lo raggiunsero, ottenendo lo status di residenti. Venticinque anni fa aveva una piccola attività in un quartiere un po’ isolato, oggi separato da Gerusalemme da un muro. Non pagava le tasse – non è chiaro se per ragioni politiche o per negligenza – e presto la cifra ha raggiunto livelli insostenibili. Per questo gli hanno vietato di lasciare il paese.

Una procedura legale per cancellare il debito è impossibile: dovrebbe prima rinnovare il suo permesso di residenza fornendo un indirizzo e dimostrando di aver pagato le tasse negli ultimi sette anni. Sta quindi rischiando la revoca dello status di residente. Ha raccontato tutto questo con il sorriso. Il limbo in cui si trova è il suo manifesto politico, in un’epoca in cui l’attivismo sembra essersi trasferito su Facebook.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 19 gennaio 2018 a pagina 23 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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