Alla fine i catalani hanno votato. Non tutti, però: due milioni e duecentomila persone, il 35 per cento dell’elettorato. Secondo i conteggi effettuati con sorprendente rapidità dagli organizzatori, l’80,7 per per cento ha detto sì all’indipendenza.
“Una farsa” per Madrid, “un successo totale” per Artur Mas e gli indipendentisti. Sicuramente l’ultimo atto di un processo confuso durato mesi, un lungo pasticcio che non ha vincitori né vinti, ma che è imputabile agli errori di entrambe le parti: di certo all’avventatezza, all’opportunismo e alla mancanza di capacità strategica degli indipendentisti, ma pure all’arroganza politica, e perfino culturale, con cui il governo di Mariano Rajoy da sempre tratta tutto quello che ha a che fare con il catalanismo, un atteggiamento che oggi è aggravato dalla profonda crisi istituzionale dell’intero sistema spagnolo.
Sotto questo profilo, il paragone con la Scozia è inevitabile. Dal primo referendum sulla devolution del 1979, i nazionalisti scozzesi ci hanno messo trentacinque anni per costruire una solida base politica e ottenere la convocazione di un referendum vincolante sull’indipendenza. E, per quanto fermamente unionisti, i conservatori di David Cameron non hanno mai sottovalutato né ridicolizzato le aspirazioni degli scozzesi.
Resta un fatto: nonostante il modo poco ortodosso con cui si è svolta la consulta del 9N, la portata della mobilitazione della società catalana è sotto gli occhi di tutti. A Madrid farebbero bene a cominciare a prestare attenzione.
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