Il tempismo è stato perfetto. A un anno dall’apertura delle due inchieste di corruzione che per qualche giorno hanno fatto vacillare il potere di Recep Tayyip Erdoğan, il 14 dicembre la polizia turca ha arrestato 31 persone accusate di aver fatto parte di un gruppo terrorista che aveva l’obiettivo di rovesciare il governo.
Sono poliziotti, produttori televisivi, ma soprattutto giornalisti, tra cui il direttore del quotidiano Zaman e il presidente dell’emittente tv Samanyolu. E sono tutti legati al predicatore islamico Fethullah Gülen, che vive da anni negli Stati Uniti.

Ex alleato di Erdoğan e figura cruciale nella creazione del solidissimo apparato di potere messo in piedi dall’attuale presidente turco, Gülen gode ancora di una forte influenza in diversi ambienti della società e, secondo le accuse, sarebbe al vertice di uno stato nello stato che avrebbe manovrato le inchieste del dicembre 2013 per organizzare un golpe e spodestare Erdoğan.

Nei dodici mesi che sono trascorsi da quella data sono successe parecchie cose. Prima decine di arresti di uomini vicini a Erdoğan, all’epoca premier, poi la sua risposta: le purghe nella polizia e tra i giudici, un vigoroso rimpasto di governo, le prevedibili accuse sulle macchinazioni straniere contro Ankara e la stretta su internet e la libertà di stampa.

In breve tempo Erdoğan è riuscito a neutralizzare quello che rimaneva del movimento di piazza Taksim, ha ricompattato il suo elettorato e il 10 agosto, al primo turno, è stato eletto alla presidenza del paese.

In questo crescendo, la resa dei conti con i gulenisti poteva essere prevedibile. E infatti era stata annunciata da un tweet dell’11 dicembre e anticipata dall’entrata in vigore, il giorno successivo, di una legge che amplia sensibilmente i poteri della polizia.

Nonostante la complessità e l’opacità dei rapporti tra l’Akp di Erdoğan e i gulenisti – due anime del conservatorismo islamico turco che dopo aver convissuto per anni sono entrate in conflitto – un attacco così diretto ai mezzi d’informazione critici verso il governo è un’ulteriore conferma del crescente autoritarismo di Ankara e dell’erosione dei princìpi della democrazia nel paese.

L’Unione europea ha già alzato la voce per condannare gli arresti, “incompatibili con i valori europei”. E nonostante anni di indugi e resistenze da parte di diversi paesi membri, c’è chi è tornato a chiedere di rilanciare il processo di integrazione della Turchia nell’Ue. Il dubbio, sempre più giustificato, è che Ankara non sia più interessata.

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