Con il passare delle ore e con il progredire del conteggio dei voti, il risultato dei conservatori è apparso prima inaspettatamente positivo, poi è sembrato una vittoria chiara e infine un vero trionfo. Il partito del premier David Cameron è riuscito a portare a Westminster una maggioranza che – anche se di pochi seggi – oggi ha tutto l’aspetto di un successo storico in quelle che fino a ieri erano state raccontate da tutti come “le elezioni più incerte della storia britannica”.
Cento seggi di scarto rispetto al Labour erano inimmaginabili, stando ai sondaggi. Invece il tracollo laburista è stato devastante. E porterà alle dimissioni di Ed Miliband e a una nuova lotta per la leadership, scatenando la caccia al colpevole e riaprendo inevitabilmente le vecchie ferite legate alla scelta fatta nel 2010, quando Ed sconfisse il fratello David nella sfida per la guida del partito. Praticamente cancellati anche i liberaldemocratici di Nick Clegg, che hanno pagato cinque anni di coalizione con i tory in cui hanno dovuto rimangiarsi molte delle loro parole d’ordine, per finire puniti da un elettorato che è evidentemente poco avvezzo alle concessioni necessariamente legate ai compromessi politici.
Il dato più interessante, anche se in gran parte atteso, è l’affermazione dello Scottish national party, che ha un volto ben preciso: quella di Mhairi Black, la candidata di vent’anni, alla sua prima esperienza politica, che nella constituency di Paisley e Sud Renfrewshire ha sconfitto il ministro degli esteri ombra del Labour, Douglas Alexander. Se a nord del fiume Tweed la mappa politica uscita dalle precedenti elezioni era in gran parte colorata di rosso, soprattutto intorno alle città di Glasgow, Edimburgo a Aberdeen, oggi la Scozia è una grande macchia gialla (il colore dell’Snp) con un piccolo puntino blu, quindi tory, nel Dumfrieshire, e uno solo rosso nel collegio di Edimburgo sud. E con tutte le vecchie roccaforti operaie e laburiste ormai crollate.
Tornando ai conservatori, tuttavia, c’è da dire che il trionfo alle urne non spianerà a Cameron la strada per cinque anni di governo senza intoppi e senza difficoltà. È vero che tra le chiavi della vittoria dei tory ci sono state soprattutto la ripresa economica degli ultimi mesi e una fiducia generalizzata nella capacità di gestire l’economia meglio di quanto avrebbero potuto fare Miliband e il responsabile economico del Labour Ed Balls. Ma non è detto che l’elettorato britannico accetterà senza batter ciglio altri cinque anni di austerità, tagli e rigore.
Inoltre, confrontarsi con la nuova opposizione parlamentare dello Scottish national party potrebbe nascondere più di un’insidia, tanto più che il successo dei nazionalisti scozzesi rafforzerà le spinte centrifughe in tutta l’Unione, a cominciare da quelle che partono proprio dal cuore dell’Inghilterra. Soprattutto, però, Cameron dovrà gestire il referendum sull’uscita dall’Unione europea che si dovrebbe tenere entro il 2017. Un compito non facile, considerato che parte della destra del suo partito è esplicitamente favorevole al “Brexit” e che in quell’occasione gli elettori risolutamente euroscettici dell’Ukip di Nigel Farage – che con il 13 per cento dei voti è riuscito a portare a Westminster un solo deputato – saranno determinatissimi a far sentire la loro voce.
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