Apro il giornale. L’annuncio pubblicitario di uno studio odontoiatrico promette di restituire ai clienti non il sorriso, ma “un sorriso vincente”. Trascurando l’indimostrabilità del risultato, non saprei dire se in sé il concetto di “sorriso vincente”, e di “vincente” tout court, sia più irritante o più scemo.
Qualche anno fa i ragazzini dividevano il mondo tra fighi e sfigati, ed essere scaraventati tra gli sfigati era il peggiore dei destini possibili. Il frivolo diminutivo “fighetto” sembrava porre almeno un interrogativo sulla possibile vacuità della categoria dei fighi.
Ma ora che l’universo degli esseri e dei destini umani appare diviso tra “vincenti” e “perdenti” ogni residua ombra di dubbio si azzera. Essere vincenti così, a prescindere, sembra cosa buona, giusta e sommamente desiderabile. Ma perché mai?
Certo: nella nostra cultura vincere è glorioso. Ma provate a pensarci: nell’idea di riportare una vittoria, e quindi di risultare vittoriosi, sono impliciti il rischio, la lotta, la sfida, il coraggio e la possibilità della sconfitta, la fatica, la tenacia e la passione, magari l’eroismo e una dose di ingegno e di creatività.
Invece questo plastificato, cafonissimo imperativo categorico del risultare vincenti non importa per cosa, su chi, in quali ambiti e per quali talenti e dopo aver affrontato quali prove, in quali modi eventualmente obliqui o truffaldini, non evoca alcun merito intrinseco.
Il vincente a prescindere è un finto vittorioso, una bufala palestrata che si pavoneggia circonfusa di luci da discoteca, mostrando il torace pompato e depilato. Nessun segno di lotta. Niente polvere o ferite o cicatrici, niente eco delle battaglie nelle orecchie. E, siccome il vincente con il suo sorriso stolto se ne sta lì, tronfio, poi finisce che qualche sprovveduto ci casca e fa perfino il tifo per lui, nonostante l’antipatia e l’inaffidabilità.
Per inciso, ho il fondato sospetto che sbavare sui vincenti sia un comportamento perdente: implica un’idea così deviata della lotta e della vittoria da far pensare che chi la coltiva non abbia il minimo senso di cosa significhi per davvero lottare e, se va bene, vincere.
D’altra parte, nell’idea stessa di “vincente” è contenuta una drammatica debolezza. Il vincente definisce la propria esistenza solo nella misura in cui “vince”, perfino se la vittoria è tarocca o irrilevante. Ma quando gli capita di perdere, come a tutti prima o poi succede, perde anche se stesso e puff!, non esiste più.
Ci sarebbe da rileggere
Giochi finiti e infiniti, un bel libro di James Carse uscito molti anni fa. Sottotitolo: la vita come gioco e come possibilità. Idea di fondo: noi possiamo giocare giochi “finiti”, nei quali l’obiettivo è vincere, e giochi infiniti, nei quali l’obiettivo è continuare a giocare.
Nei giochi finiti (sport competitivi, dibattiti, Monopoli, guerra, briscola…) esistono perdenti e vincenti (vincenti veri, se non altro). Ma nei giochi infiniti (imparare, avere relazioni sane, allevare i figli, essere vivi) la vittoria dei giocatori consiste nel continuare il gioco, e il loro talento sta nel trovare sempre nuovi modi per giocare, abbattendo ogni confine. Affascinante.
Ci sarebbe anche da riguardarsi Quarto potere di Orson Welles, la storia di Charles Foster Kane, “un uomo che ottiene tutto quanto vuole, per poi perderlo”. Ci sarebbe da ricordare che esistono logiche win-win basate sulla cooperazione: è la strategia che i cinesi dichiarano di voler applicare in Africa, in opposizione al precedente colonialismo occidentale. E chissà se lo dicono sul serio.
Ci sarebbe da ricordare la storia di Derek Redmond, che vince forse la più lunga standing ovation della storia olimpica perdendo sui 400 metri piani: è primo, ma durante la gara gli si strappa un muscolo. Taglia il traguardo zoppicando, sorretto dal padre.
Ma forse basterebbe aggiornare la favola I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen. Trovare un bambino che guarda il vincente di turno nelle palle degli occhi e gli dice: “Tu, sotto sotto, sei il più sfigato di tutti”.
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