Ho appena passato due giorni interi a litigare con un testo che dovevo consegnare da tempo. Quando (tempo scaduto!) mi sono arrivati via email un paio di solleciti cortesissimi nella forma ma perentori nella sostanza, il testo è immediatamente risalito al primo posto nella lista delle cose da fare su-bi-to.
Subito, in teoria.
Non mi capita spesso di inchiodarmi quando scrivo. Lavoro con le parole da più di quarant’anni e ho scritto di tutto: centinaia di articoli usciti su carta (oggi, soprattutto, in rete) titoli e testi pubblicitari, testi di canzoni, comunicati stampa, lettere di vendita, testi per la radio e la televisione, un intero programma elettorale messo insieme a partire da uno sgangherato faldone di pizzini scritti da esperti che non si erano mai parlati tra loro.
Trucchi e rimedi
E poi: relazioni, presentazioni in power point e altre cose più bizzarre, come i tanti testi di servizio di una bolletta dell’energia elettrica. O la lapide commemorativa del fondatore di una della maggiori aziende italiane della moda. Ah: ho pubblicato anche otto libri. Si tratta di diverse migliaia di pagine, oibò. Ho perfino scritto, in vari momenti, numerose pagine per la rete (e un intero libro) di consigli sulla scrittura.
Non lo dico per pavoneggiarmi, ma per sostenere con alcuni incontrovertibili dati di fatto l’affermazione che di solito, se c’è qualcosa che devo scrivere, mi ci metto senza far troppe storie. In teoria, so come fare e conosco i trucchi e i rimedi.
Raccolgo i dati. Riordino le idee. Comincio. Rileggo. Mi domando se quello che sto mettendo insieme ha senso ed è interessante. Vado avanti. Rileggo. Aggiusto. Rileggo. E così via, fino al termine del lavoro (allora rileggo. Rileggo. Rileggo. E poi, uh, licenzio il testo. Evviva, anche perché di solito è sera tardi). Se si tratta di narrativa (una dimensione dello scrivere che frequento più di rado) il processo è un po’ diverso ma, insomma, siamo lì.
Se una parte non va bene, la elimino senza troppi rimpianti (ma non la butto via)
Non scrivo velocemente, e non nascondo di aver sempre provato una certa invidia per chi lo fa. Però arrivo sempre alla fine nei tempi previsti, e con risultati decorosi. Be’: quasi sempre, sembrerebbe.
La prima strategia che ho applicato è stata scartare. Di solito funziona: ecco perché non mi succede quasi mai di inchiodarmi seriamente e a lungo. Se una parte non va bene, la elimino senza troppi rimpianti (ma non la butto via: se volete sapere perché, leggete qui) e riscrivo. Basta avere un po’ di pazienza, attivare la modalità “rilettura critica”, capire che cosa c’è da togliere. Bene: dopo alcune ore di lavoro non mi era rimasto più niente da scartare.
La seconda strategia che ho applicato è stata sospendere. Dopo un numero tanto consistente quanto irritante di tentativi (ormai era quasi sera) sono andata a farmi una passeggiata. E poi mi sono letta i giornali. E poi mi sono guardata l’ultima puntata di House of cards (mmmh: non è che gli sceneggiatori stavolta si sono fatti un po’ prendere la mano?). E poi ci ho dormito sopra.
L’idea era che – la notte porta consiglio – la mattina dopo, fresca fresca, avrei ripreso senza difficoltà. Anche questo modo di procedere di solito funziona. Ehi: ho scritto “di solito”.
La terza strategia che ho messo in atto è proprio graziosa: si tratta di ingannare se stessi quando l’ansia da prestazione sta salendo e consiste nell’impegnarsi non a completare l’intero compito, ma a farne solo un primo pezzettino. Ve ne ho già parlato qui su Internazionale.
Cambiare punto di vista
Ci ho provato all’inizio del pomeriggio del secondo giorno disponibile: diversi pezzettini sono stati rapidamente buttati via.
A metà pomeriggio sono andata a farmi un altro giro, e poi mi sono preparata un tè. Diciamo che non ero esattamente di buon umore. Nel momento in cui stavo versando l’acqua bollente sulle foglie mi è venuto in mente di provare a smettere del tutto di preoccuparmi della prestazione (modesta) e del prodotto (ancora inesistente) e osservare il processo.
Il senso di urgenza può impedire di prendere le distanze
Solo cambiando punto di vista e prospettiva sono riuscita ad accorgermi di due cose. In primo luogo, l’urgenza di scrivere aveva intensificato anche la rilevanza di quanto avrei dovuto consegnare: come se il testo, essendo urgente, fosse anche diventato cruciale, e se da quello (mica vero!) dipendessero le sorti del mondo.
Risultato: niente mi sembrava mai buono abbastanza. In secondo luogo, le troppe riscritture e riletture mi avevano condotta a una situazione di paralysis by analysis.
Due errori da principiante, alla faccia dei quarant’anni e rotti di cui sopra. Avrei potuto accorgermene prima? Certo che sì. Sono riuscita ad accorgermene? Ovviamente no. Il senso di urgenza può impedire di prendere le distanze.
Ogni volta un’avventura
Mi sono bevuta il tè, assorta, nella luce dorata del pomeriggio (aaah, questo sì che suona letterario). Sono tornata al computer e ho aperto un nuovo foglio, “dai, santa polenta, non metterla giù dura e riprova, che sarà mai?”.
Evidentemente tutto (concetti, parole) se ne stava lì pronto, da qualche parte della mia testa. Non appena sono riuscita a procedere con maggior leggerezza, concetti e parole sono fluiti lisci come l’olio.
Ho concluso in meno di quattro ore un lavoro su cui mi sono inutilmente scornata per due giorni. Alla fine, e visto che alla scrittura notturna sono abituata, mi è rimasta la voglia di raccontarvi tutto quanto, subito, su questa pagina. Le cose da ricordare sono quattro.
- Di solito, scartare quel che non va bene funziona. Prima si scarta, meglio è.
- Anche interrompere e fare qualcos’altro di solito funziona.
- Il trucco di dirsi “scrivo solo un pezzettino” è quasi infallibile.
- Non solo i principianti fanno errori da principiante.
Quest’ultimo fatto in parte può irritare, ma in parte può confortare. Vuol dire che, con la scrittura, niente è mai davvero scontato, e che per certi versi affrontare un nuovo testo continua a essere, ogni volta, un’avventura.
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