In un freddo pomeriggio di marzo del 1949 Wolfgang Leonhard uscì di soppiatto dalla segreteria del Partito comunista della Germania Est. Andò a casa e riempì una valigetta di abiti caldi, poi si diresse a piedi fino a una cabina telefonica per chiamare la madre. “Il mio articolo sarà finito stasera”, disse. Era un messaggio in codice concordato in anticipo. Significava che sarebbe fuggito dal paese, rischiando la vita.
All’epoca Leonhard aveva appena 28 anni, ma era già entrato nell’élite della nuova Repubblica Democratica Tedesca. Figlio di una coppia di comunisti tedeschi, aveva studiato in Unione Sovietica, era stato addestrato nelle scuole speciali durante la guerra, e nel maggio del 1945 era tornato a Berlino da Mosca, a bordo dello stesso aeroplano che trasportava Walter Ulbricht, il leader di quello che sarebbe diventato il Partito di unità socialista di Germania. Leonhard faceva parte del gruppo che avrebbe dovuto ricostruire un sistema di amministrazione nella zona di Berlino controllata dai sovietici. Aveva un obiettivo in particolare: assicurarsi che a ogni leader locale emerso dal caos postbellico fosse affiancato un vice fedele al partito. “Il governo deve avere un aspetto democratico”, gli aveva spiegato Ulbricht, “ma dobbiamo mantenere il controllo su tutto”.
Leonhard si portava dietro un passato pieno di sofferenze. Quando era ancora un adolescente, a Mosca, sua madre era stata arrestata con l’accusa di essere “una nemica del popolo” e mandata nel campo di lavoro di Vorkuta, nell’estremo nord del paese. Aveva vissuto la povertà e la disuguaglianza che esistevano nell’Unione Sovietica ed era rimasto incredulo di fronte all’alleanza stretta tra Russia e Germania nazista nel 1939. Era a conoscenza degli stupri di massa compiuti dall’Armata rossa dopo l’occupazione. Eppure, come i suoi amici ideologicamente impegnati, anche lui aveva “istintivamente rifiutato l’idea” che quegli eventi fossero “in totale contrasto con i nostri ideali socialisti”. Era rimasto aggrappato al sistema di idee con cui era cresciuto.
Il punto di svolta fu un episodio banale. Un giorno, mentre camminava nell’atrio del palazzo del comitato centrale del partito a Berlino, fu avvicinato da un “uomo di mezza età dall’aspetto gradevole”, un compagno appena arrivato dall’occidente. L’uomo gli chiese dove fosse il refettorio. Leonhard gli rispose che dipendeva da quale buono pasto avesse, perché le mense erano divise in base al rango dei funzionari. Il compagno ne fu stupito. “Ma non sono tutti esponenti del partito?”, chiese.
Leonhard si allontanò ed entrò nel refettorio riservato ai vertici del partito, dove i tavoli erano coperti da tovaglie bianche e i funzionari consumavano pasti di tre portate. Provò un senso di vergogna. “Strano che non ci abbia mai fatto caso prima”, pensò. In quel momento Wolfgang Leonhard cominciò a covare i dubbi che alla fine lo avrebbero portato a organizzare la fuga.
Amici più importanti
Nello stesso preciso istante, e nella stessa città, un altro funzionario di alto grado arrivava a conclusioni opposte. Markus Wolf proveniva anch’egli da un’importante famiglia comunista, e anche lui aveva trascorso l’infanzia in Unione Sovietica, frequentando le stesse scuole di prestigio riservate ai figli dei comunisti stranieri. I due giovani comunisti avevano addirittura condiviso una stanza all’interno dello stesso campo d’addestramento durante la guerra, utilizzando pseudonimi per rivolgersi l’uno all’altro nonostante conoscessero perfettamente i rispettivi nomi. Erano le regole del gioco.
Anche Wolf aveva assistito agli arresti di massa, alle purghe e aveva conosciuto la povertà dell’Unione Sovietica. E anche lui aveva mantenuto la fede nella causa. Era arrivato a Berlino pochi giorni dopo Leonhard, a bordo di un altro aereo carico di dirigenti comunisti. Quasi subito gli era stata assegnata la conduzione di un programma sulla nuova emittente radiofonica sostenuta dai sovietici, in cui rispondeva alle domande degli ascoltatori, spesso concludendo i suoi interventi con la formula: “Stiamo superando le difficoltà con l’aiuto dell’Armata rossa”.
Nell’agosto del 1947 Leonhard e Wolf s’incontrarono nel “lussuoso appartamento di cinque stanze” di Wolf, poco lontano dalla sede della radio. Poi si spostarono in macchina fino a casa di Wolf, “una splendida villa nei pressi del lago Glienicke”. Mentre passeggiavano sulla riva del lago, Wolf confessò a Leonhard che le cose stavano cambiando, e gli consigliò di abbandonare la speranza che il comunismo tedesco potesse svilupparsi in modo diverso da quello sovietico. Quell’idea, coltivata da molti esponenti del partito, stava per essere accantonata. Quando Leonhard manifestò la sua incredulità (era incaricato delle questioni ideologiche e nessuno gli aveva mai parlato di un possibile cambio di rotta), Wolf scoppiò a ridere. “Esistono autorità più alte in grado della tua segreteria centrale”. In quel modo Wolf mise in chiaro di avere contatti migliori e amici più importanti. Aveva 24 anni e faceva già parte dei circoli più esclusivi del potere. Quel giorno Leonhard capì finalmente di essere un funzionario in un paese occupato, in cui l’ultima parola sarebbe sempre spettata al Partito comunista sovietico, non a quello tedesco.
Com’è noto, dopo quegli eventi la carriera di Markus Wolf proseguì brillantemente. Non solo restò nella Germania Est, ma scalò i ranghi della nomenklatura fino a diventare la più importante spia del paese. Fu vicedirettore del ministero della sicurezza di stato, meglio conosciuto come Stasi, ed è stato indicato spesso come la fonte d’ispirazione per il personaggio di Karla nei romanzi di spionaggio di John le Carré. Nel corso della sua carriera, i servizi segreti della Germania Est reclutarono agenti nella cancelleria della Germania Ovest e in quasi tutti i ministeri del governo, oltre che nella Nato.
Leonhard, invece, diventò un famoso oppositore del regime. Svolse l’attività di scrittore e professore a Berlino ovest, a Oxford e alla Columbia University. Le sue lezioni all’università di Yale segnarono diverse generazioni di studenti. Tra i suoi allievi ci fu anche un futuro presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, che descrisse le lezioni di Leonhard come “un’introduzione alla lotta tra tirannia e libertà”. Quando frequentavo Yale, negli anni ottanta, il corso sulla storia sovietica tenuto da Leonhard era il più popolare tra gli studenti.
Wolf rimase un collaboratore entusiasta di quel sistema, mentre Leonhard non riuscì a sopportare il tradimento dei propri ideali. Perché?
Prese singolarmente, le storie di Leonhard e Wolf sono abbastanza lineari, ma analizzate insieme richiedono una spiegazione più profonda. Fino al marzo del 1949 le biografie dei due erano incredibilmente simili. Entrambi erano cresciuti all’interno del sistema sovietico. Entrambi avevano assorbito l’ideologia comunista. Entrambi condividevano gli stessi valori e sapevano che il partito stava mettendo in discussione quei valori. Entrambi erano perfettamente consapevoli del fatto che il sistema, teoricamente costruito per garantire l’uguaglianza, era in realtà profondamente iniquo e crudele. Come i loro colleghi in altri luoghi e in altre epoche, Leonhard e Wolf potevano vedere chiaramente il divario tra la propaganda e la realtà. Eppure uno dei due rimase un collaboratore entusiasta di quel sistema, mentre l’altro non riuscì a sopportare il tradimento dei propri ideali. Perché?
In inglese la parola collaborator ha un doppio significato. Può indicare un collaboratore in senso neutro o positivo. Ma significa anche collaborazionista, cioè chi lavora per il nemico, per una potenza occupante, per un regime dittatoriale. Quest’accezione si è diffusa durante la seconda guerra mondiale, quando la parola collaborazionista è stata ampiamente usata per descrivere gli europei che cooperavano con gli occupanti nazisti. Nel termine collaborazionista è insito il concetto di tradimento: della propria nazione, della propria ideologia, della propria morale, dei propri valori.
Dopo la seconda guerra mondiale gli storici e i politologi hanno cercato di spiegare perché, in circostanze estreme, alcuni diventino collaborazionisti, mentre altri decidano di ribellarsi. Stanley Hoffmann, lo studioso di Harvard ormai scomparso, conosceva l’argomento in prima persona, dato che da bambino era stato costretto a nascondersi dai nazisti insieme alla madre a Lamalou-les-Bains, un piccolo centro nel sud della Francia. Eppure Hoffmann era piuttosto reticente a esprimere le sue personali conclusioni sul tema. “Uno storico attento dovrebbe valutare un’infinità di casi singoli”, scrisse, “perché si ha l’impressione che siano esistiti tanti collaborazionismi quanti sono stati i collaborazionisti”. Hoffman provò comunque a stilare una classificazione, cominciando dalla distinzione tra collaborazionisti “volontari” e “involontari”. Secondo lui molte persone che fecero parte di questo secondo gruppo non avevano scelta. Costretti a “una riluttante ammissione di uno stato di necessità”, non poterono evitare di collaborare con gli occupanti nazisti che governavano il loro paese.
Hoffmann proseguì dividendo i “volontari” in due sottocategorie. La prima era composta da quelli che aiutavano il nemico in nome “dell’interesse nazionale”, razionalizzando la propria partecipazione e considerandola un atto necessario per proteggere l’economia o la cultura della Francia, per esempio, anche se in realtà avevano spesso interessi personali. La seconda categoria era composta dai collaborazionisti ideologici: le persone che ammiravano il fascismo o Hitler e quelle che ritenevano debole o corrotta la Francia repubblicana prebellica e speravano che i nazisti potessero “raddrizzarla”.
Hoffmann ha sottolineato che molti collaborazionisti ideologici erano proprietari terrieri o aristocratici, “con ruoli di primo piano nella pubblica amministrazione, nelle forze armate e nell’imprenditoria”. Queste persone si consideravano parte della classe dirigente per diritto di nascita, e ritenevano di essere state ingiustamente private del potere dai governi di sinistra nella Francia degli anni trenta. Altrettanto motivati a collaborare erano quelli che si trovavano nella situazione opposta, “gli emarginati sociali e politici”, che in circostanze normali non avrebbero mai avuto una carriera di successo. A unire questi due gruppi era l’idea secondo cui, a prescindere dall’opinione che avevano della Germania prima del giugno 1940, il loro futuro personale e politico sarebbe migliorato grazie alla collaborazione con gli occupanti.
Una specie di sollievo
Come Hoffmann, anche il poeta polacco e premio Nobel Czesław Miłosz scrisse di collaborazionismo da una prospettiva personale. Esponente della resistenza anti-nazista durante la guerra, al termine del conflitto Miłosz diventò addetto culturale dell’ambasciata polacca a Washington, servendo il governo comunista. Solo nel 1951 decise di disertare e denunciare il regime, un’esperienza che in seguito ha analizzato nelle sue opere. Nel saggio La mente prigioniera, Miłosz descrive una serie di personaggi reali – tutti intellettuali e scrittori, e tutti abbastanza riconoscibili – che avevano trovato modi diversi per giustificare il proprio collaborazionismo con il partito. Molti di loro erano semplicemente dei carrieristi, ma Miłosz capì che l’arrivismo non offriva una giustificazione completa alle loro azioni.
Secondo Miłosz, per molte persone far parte di un movimento di massa significava mettere fine alla propria emarginazione, sentirsi vicine “al popolo”, inserirsi in una comunità allargata composta dai commercianti e dai lavoratori. Agli intellettuali inquieti la collaborazione regalava anche una specie di sollievo, un senso di pace: non avrebbero più dovuto essere in costante conflitto con lo stato, in una situazione di subbuglio e incertezza. Quando l’intellettuale accetta l’idea che non esiste un’alternativa, scrive Miłosz, “ricomincia a mangiare con gusto, prende vigore e riacquista un colorito salubre. Si siede e scrive un articolo ‘positivo’, meravigliandosi per la facilità con cui il testo prende forma”. Miłosz è uno dei pochi scrittori ad aver riconosciuto il piacere del conformismo, la leggerezza d’animo che ne deriva e il modo in cui essa permette di risolvere molti dilemmi professionali e personali.
Sentiamo tutti il desiderio di conformarci. È la pulsione umana più comune. Me ne sono ricordata di recente quando ho fatto visita a Marianne Birthler nel suo luminoso appartamento di Berlino. Negli anni ottanta Birthler è stata una dei pochi dissidenti attivi nella Germania Est, e dopo la caduta del muro ha trascorso più di un decennio ad analizzare l’archivio della Stasi. Le ho chiesto se poteva identificare, all’interno della cerchia delle sue conoscenze, le circostanze capaci di spingere alcune persone a collaborare con la Stasi.
La mia domanda l’ha un po’ delusa. Mi ha risposto che per lei il collaborazionismo non è mai stato interessante, anche perché il 99 per cento dei tedeschi dell’est collaborava con il regime: chi non lavoravano per la Stasi, infatti, collaborava con il partito o comunque operava all’interno del sistema. Birthler considera molto più interessanti e difficili da capire i motivi “per cui le persone hanno deciso di schierarsi contro il regime”. Il punto, in altre parole, non sta nel cercare di capire i motivi per cui Markus Wolf è rimasto in Germania Est, ma quelli che hanno spinto Wolfgang Leonhard ad andarsene.
Mentre Graham lavorava come avvocato dell’esercito, Romney rilevava aziende generando enormi profitti
Passiamo a due storie più recenti, ambientate negli Stati Uniti. All’inizio degli anni ottanta Lindsey Graham cominciò a lavorare per i Judge advocate general’s corps, il servizio legale dell’aeronautica. In quel periodo prestò servizio nella Germania Ovest, sul fronte della guerra fredda. Nato e cresciuto in una cittadina del South Carolina, Graham era profondamente devoto all’esercito. Dopo aver perso entrambi i genitori, morti prima che lui compisse trent’anni, Graham riuscì a frequentare l’università – e a far iscrivere anche la sorella minore – grazie a un finanziamento del corpo di addestramento degli ufficiali di riserva (Rotc) e poi grazie allo stipendio dell’aeronautica. Rimase tra i riservisti per vent’anni (anche dopo essere stato eletto senatore), prestando servizio per brevi periodi in Iraq e in Afghanistan. “L’aeronautica è una delle cose migliori che mi siano mai capitate”, avrebbe detto Graham nel 2015. “Mi ha dato uno scopo più grande di me. Mi ha permesso di essere in contatto con altri patrioti”.
Come il suo amico John McCain, per gran parte della sua carriera da senatore Graham è stato convinto che gli Stati Uniti dovessero avere un esercito forte e farsi guidare da valori democratici solidi, sia all’interno sia all’estero. Nel 2014, mentre nel Partito repubblicano si facevano strada le idee radicali del Tea party, impostò la campagna elettorale per la sua rielezione su posizioni moderate. In un’intervista all’Atlantic raccontò che le battaglie con il Tea Party erano “più divertenti di qualsiasi altra attività politica della mia vita”.
La seconda storia è quella di Mitt Romney. Mentre Graham era in Germania Ovest, Romney contribuì a fondare e poi divenne il presidente della Bain Capital, una società d’investimenti specializzata nelle acquisizioni. Era originario del Michigan, viveva in Massachusetts e grazie al fatto di essere un mormone aveva stretti legami con lo Utah. Mentre Graham lavorava come avvocato dell’esercito, con uno stipendio da militare, Romney rilevava aziende, le risanava e le rivendeva generando enormi profitti.
Aveva un grande talento per quel genere di attività (nel 1990 gli fu chiesto di gestire l’azienda madre Bain & Company) e questo gli permise di diventare molto ricco. Ma il suo sogno era sempre stato quello di fare carriera in politica. Nel 1994 si candidò al senato per il Massachusetts dopo aver cambiato la sua affiliazione politica, da indipendente a repubblicano. Perse le elezioni, ma nel 2002 riuscì a farsi eleggere governatore dello stato candidandosi come moderato indipendente. Nel 2007, al termine di un mandato in cui aveva introdotto un sistema sanitario semi-universale che anni dopo avrebbe ispirato la riforma di Barack Obama, Romney si candidò per la prima volta alla presidenza. Nel 2008 perse le primarie repubblicane, quattro anni dopo le vinse, ma fu sconfitto da Obama alle presidenziali.
Sia Graham sia Romney hanno coltivato ambizioni presidenziali (Graham si è candidato nel 2015, dichiarando che il mondo stava “cadendo a pezzi”, per poi rinunciare poco dopo). Entrambi sono stati fedeli alla linea del Partito repubblicano e scettici nei confronti dell’ala più radicale e complottista. Nel 2015 entrambi hanno reagito con rabbia alla candidatura presidenziale di Donald Trump. Non c’era da stupirsi, visto che le posizioni di Trump costituivano una minaccia per i loro valori. Graham ha dedicato tutta la sua carriera all’idea che gli Stati Uniti debbano essere una guida per il resto del mondo, mentre Trump ha sempre cavalcato la dottrina dell’America first, gli Stati Uniti prima di tutto, che alla fine si è rivelata “io e i miei amici prima di tutto”. Romney è stato un imprenditore di successo con una solida esperienza nella pubblica amministrazione, mentre Trump ha ereditato la sua ricchezza, ha dichiarato bancarotta più volte, non ha mai creato nulla che avesse valore e non ha ricoperto incarichi politici prima di entrare alla Casa Bianca. Sia Graham sia Romney sono legati alla tradizione democratica degli Stati Uniti e agli ideali di onestà, responsabilità e trasparenza nella vita pubblica. Tutti valori che Trump disprezza.
Graham e Romney hanno espresso più volte la loro ostilità nei confronti di Trump. Prima delle elezioni del 2016, Graham ha definito Trump “un somaro”, “uno squilibrato” e “un fanatico religioso, xenofobo e razzista”. Era tutt’altro che felice della sua ascesa, anzi sembrava depresso. Nella primavera del 2016 l’ho incontrato a una conferenza in Europa, e ricordo che mi parlava a monosillabi.
Luoghi comuni sbagliati
Romney si è spinto ancora più in là. “Lasciate che lo dica chiaramente”, ha dichiarato a marzo del 2016 in un discorso critico verso Trump: “Se noi repubblicani sceglieremo Donald Trump come candidato, le prospettive di un futuro sicuro e prospero per il paese saranno compromesse”. Romney ha anche denunciato “la prepotenza, l’avidità, la misoginia, l’esibizionismo e le sceneggiate infantili” di Trump, chiamandolo “imbroglione” e “truffatore”. Anche dopo che Trump è diventato il candidato del Partito repubblicano, Romney si è sempre rifiutato di sostenerlo, e ha dichiarato di aver scritto il nome della moglie sulla scheda elettorale. Graham, invece, sostiene di aver votato per il candidato indipendente Evan McMullin.
Quando Trump è diventato presidente degli Stati Uniti, le convinzioni di Graham e Romney sono state messe a dura prova. Il seguito della storia contrasta palesemente con le biografie dei due senatori. Nel 2016 Graham sembrava quello dei due con il legame più profondo con l’esercito, con lo stato di diritto e con le tradizionali idee del patriottismo americano e della responsabilità degli Stati Uniti verso il mondo. Romney, invece, aveva già oscillato diverse volte tra il centro e la destra e aveva alle spalle una lunga carriera nel mondo degli affari, quindi sembrava meno legato ai valori americani tradizionali. La maggior parte degli statunitensi tende a vedere i soldati come dei patrioti leali, e a considerare chi lavora nel mondo della finanza come un egoista. Inoltre presumiamo che una persona proveniente da una cittadina del South Carolina sia più incline a resistere alle pressioni politiche rispetto a un “uomo di mondo”. Intuitivamente siamo portati a pensare che il senso di appartenenza a un luogo si traduca in lealtà verso un sistema di valori.
Ma in questo caso i luoghi comuni erano sbagliati.
È stato Graham a giustificare gli abusi di potere di Trump. È stato Graham a sminuire le prove del tentativo di Trump di ricattare il leader di un altro paese chiedendogli di avviare un’inchiesta insensata contro un avversario politico interno, l’ex vicepresidente Joe Biden. È stato Graham a rinnegare le sue convinzioni sulla necessità della collaborazione tra repubblicani e democratici, proponendo un’inchiesta faziosa della commissione giudiziaria del senato nei confronti del figlio di Biden. È stato Graham a giocare a golf con Trump, a difenderlo in tv e a sostenerlo mentre distruggeva progressivamente tutte le alleanze degli Stati Uniti – da quella con gli europei a quella con i curdi – le stesse alleanze che Graham aveva difeso per decenni. Romney, al contrario, è stato l’unico senatore repubblicano a votare per condannare Trump al senato nella procedura di impeachment, a febbraio del 2020. “Influenzare un voto per restare in carica è la violazione più clamorosa e dannosa del giuramento presidenziale che io possa immaginare”, ha dichiarato.
Un uomo ha tradito le idee e gli ideali che aveva sostenuto in passato, mentre un altro si è rifiutato di farlo. Perché?
Attacco alla realtà dei fatti
Per i lettori statunitensi i riferimenti alla Francia di Vichy, alla Germania Est, ai fascisti e ai comunisti possono sembrare fuori luogo e perfino ridicoli. Ma l’analogia, a un’analisi approfondita, appare sensata. Il punto non è paragonare Trump a Hitler o a Stalin ma paragonare le esperienze dei politici del Partito repubblicano statunitense, in particolare i più vicini al presidente, a quelle dei funzionari francesi durante l’occupazione nazista nel 1940, dei tedeschi dell’est nel 1945 o di Czesław Miłosz nel 1947. In tutti i casi citati si tratta di persone costrette ad accettare un’ideologia estranea e un sistema di valori in aperto conflitto con i propri.
Neanche i sostenitori di Trump possono contestare quest’analogia, anche perché l’imposizione di un’ideologia estranea è precisamente ciò che Trump ha sempre promesso. La sua prima dichiarazione da presidente, il suo discorso d’insediamento, è stata un’aggressione senza precedenti alla democrazia e ai valori degli Stati Uniti. In quell’occasione Trump ha descritto la capitale del paese, il governo e i parlamentari – tutti democraticamente eletti e scelti dalla popolazione in base a una costituzione vecchia di 227 anni – come un “establishment” che prosperava a spese “del popolo”. “Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie”, ha detto. “I loro trionfi non sono stati i vostri trionfi”. Con quelle parole il presidente manifestava, nel modo più chiaro possibile, la volontà di sostituire il vecchio sistema di valori con uno nuovo, anche se la natura dei nuovi valori era piuttosto incomprensibile.
Subito dopo aver terminato il suo intervento, Trump ha lanciato il suo primo attacco alla realtà dei fatti. Gli Stati Uniti non sono una monarchia o una teocrazia dove si segue alla lettera la parola di un leader o di un prelato: sono una democrazia in cui si discute in base ai fatti, si cerca di comprendere i problemi e poi si approvano delle leggi per risolverli, il tutto rispettando una serie di regole. L’insistenza di Trump nel dire che alla sua cerimonia d’insediamento c’erano più persone che alla prima cerimonia inaugurale di Obama – un’affermazione smentita dalle fotografie, dai filmati televisivi e dalla testimonianza di migliaia di persone – ha segnato una frattura netta con la tradizione politica del paese.
Come i leader autoritari in altri tempi e altre epoche, Trump ha ordinato non solo ai suoi sostenitori ma anche ai funzionari indipendenti della burocrazia governativa di accettare una realtà clamorosamente falsa e manipolata. Nel corso della storia i politici statunitensi, come quelli di tutti i paesi del mondo, hanno spesso negato i loro errori, nascosto informazioni e fatto promesse che non avrebbero mai potuto mantenere. Ma fino all’avvento di Trump nessuno aveva mai chiesto al National park service, l’agenzia governativa che gestisce i parchi nazionali, di ritoccare le foto di una cerimonia; e nessuno aveva mai ordinato al portavoce della Casa Bianca di mentire su quanta gente aveva partecipato a un evento pubblico, tra l’altro davanti a una platea di giornalisti perfettamente consapevoli che lui mentisse sapendo di farlo.
Quella bugia era futile e abbastanza grottesca, ma proprio per questo era molto pericolosa. Negli anni cinquanta, quando un insetto conosciuto come coleottero Colorado si diffuse nei campi di patate dell’Europa orientale, i governi filo-sovietici della regione dissero che era stato lanciato dal cielo dai piloti statunitensi, nel tentativo di scatenare un attacco biologico. Manifesti che raffiguravano feroci coleotteri con i colori degli Stati Uniti furono affissi nelle città di Polonia, Germania Est e Cecoslovacchia. Come in seguito hanno dimostrato i documenti del tempo, nessuno credeva a quell’accusa strampalata, neanche le persone che la diffondevano. Ma non aveva importanza. L’obiettivo di quei manifesti non era spingere la popolazione a credere a una bugia, ma dimostrare che il partito era abbastanza potente da proclamare e promuovere una palese falsità. A volte l’importante non è convincere il popolo di una menzogna ma fare in modo che il popolo abbia paura di chi mente.
Le bugie di questo tipo hanno la tendenza ad accumularsi, perché serve tempo prima che le persone abbandonino il loro sistema di valori. Il processo, di solito, comincia lentamente, con piccoli cambiamenti. I sociologi che hanno studiato l’erosione dei valori e la crescita della corruzione all’interno delle società hanno scoperto che la popolazione “tende ad accettare un comportamento immorale più facilmente se questo comportamento si sviluppa in modo graduale invece che emergere all’improvviso”, come ha spiegato un articolo pubblicato nel 2009 dal Journal of Experimental Social Psychology. Questo fenomeno si verifica anche perché le persone, nella maggioranza dei casi, si considerano intrinsecamente oneste e virtuose, ed è difficile modificare questa convinzione. Ma una volta che un comportamento viene percepito come “normale”, la gente smette di considerarlo sbagliato.
È un meccanismo che funziona anche in politica. Nel 1947 i vertici militari sovietici che governavano la Germania Est imposero delle regole sulla stampa. Il decreto non nazionalizzava le tipografie ma si limitava a chiedere ai proprietari di ottenere una licenza e di stampare solo libri e opuscoli autorizzati dalle autorità.
Immaginiamo l’effetto di una legge simile – che non faceva nessun riferimento agli arresti né tanto meno alle torture nel gulag – sul proprietario di una tipografia di Dresda, un padre di famiglia con due figli adolescenti e una moglie malata. La legge lo mette di fronte a una serie di scelte che prese singolarmente sembrano insignificanti. Chiedere la licenza? Per forza, perché ha bisogno di lavorare per sfamare la sua famiglia. Accettare di stampare solo testi commissionati dalle autorità? Certo, d’altronde che altro c’è da stampare? Un po’ alla volta l’uomo è costretto a fare un compromesso dopo l’altro. Anche se non ama i comunisti e preferisce stare lontano dalla politica, deve accettare comunque di stampare le opere complete di Stalin, perché qualcuno lo farà comunque. Ma quando alcuni amici attivisti gli chiedono di stampare un opuscolo critico verso il regime, lui si rifiuta di farlo. Se lo facesse non finirebbe in galera, ma i suoi figli rischierebbero di non essere ammessi all’università, mentre la moglie potrebbe non ottenere i farmaci di cui ha bisogno. Nel frattempo, in tutta la Germania Est altri proprietari di altre tipografie prendono decisioni simili. Dopo un po’, senza che nessuno sia stato arrestato e senza che nessuno provi grandi rimorsi di coscienza, gli unici libri stampati sono quelli approvati dal regime.
Oggi molti politici repubblicani e funzionari dell’amministrazione Trump che si considerano patrioti e amministratori competenti vivono in una sorta di distorsione cognitiva che gli impedisce di vedere la reale natura del sistema di valori portato avanti dal presidente. I primi segnali, del resto, sembravano trascurabili. Queste persone hanno ignorato la bugia sull’affluenza alla cerimonia d’insediamento perché la ritenevano sciocca. Poi hanno ignorato la decisione di nominare il governo più ricco della storia e la decisione di Trump di riempire l’amministrazione di ex lobbisti, perché in fondo era già stato fatto. Poi hanno giustificato l’uso inappropriato che Ivanka Trump, figlia del presidente, aveva fatto di un indirizzo privato di posta elettronica, e anche i conflitti d’interesse di Jared Kushner, marito di Ivanka, perché in fondo erano solo questioni di famiglia.
Un passo alla volta, il trumpismo ha ingannato molti dei suoi sostenitori entusiasti. È importante ricordare che alcuni dei sostenitori iniziali di Trump – Steve Bannon, Michael Anton e tutti i fautori del “conservatorismo nazionale”, un’ideologia inventata di sana pianta per razionalizzare il comportamento del presidente – consideravano il loro movimento una forma riconoscibile di populismo che contrastava con la tradizionale visione dell’estabilishment repubblicano: contro Wall Street, contro le guerre all’estero e contro l’immigrazione. Il significato del loro slogan “drain the swamp”, prosciughiamo la palude, era che Trump avrebbe spazzato via il marcio dei lobbisti e dei finanziamenti ai partiti che distorce la politica americana, e avrebbe reso più onesto il dibattito e più giusta l’attività legislativa. Se davvero fosse stata questa la filosofia di Trump, avrebbe probabilmente creato seri problemi ai vertici repubblicani, perché molti esponenti del partito sostengono valori completamente diversi. Ma non avrebbe necessariamente violato la costituzione né posto dei gravi dilemmi morali per le persone nella partecipazione alla vita pubblica.
Trump ha creato un culto proto-autoritario della personalità, licenziando ed emarginando tutti quelli che lo hanno contraddetto
All’atto pratico Donald Trump ha governato seguendo una serie di principi molto diversi da quelli difesi dai suoi primi sostenitori. Anche se ha continuato a usare una retorica populista, il presidente si è circondato di ministri e collaboratori che non si preoccupano degli elettori ma solo delle necessità psicologiche del presidente, dei suoi amici a Wall Street e nel mondo delle imprese e, naturalmente, della sua famiglia. I tagli alle tasse hanno premiato in modo sproporzionato i più ricchi, non certo la classe operaia. Il debole boom economico progettato a tavolino per favorire la rielezione di Trump è stato reso possibile da un enorme deficit di bilancio (un indebitamento a cui un tempo i repubblicani si sarebbero opposti ferocemente) che graverà sulle prossime generazioni.
Trump ha fatto di tutto per smantellare il sistema sanitario noto dopo la riforma di Obama, ma senza offrire un’alternativa migliore. Di conseguenza il numero di persone senza accesso alle cure mediche è aumentato. Nel frattempo il presidente ha continuato a gettare benzina sul fuoco della xenofobia e del razzismo, perché gli serviva a mantenere consensi ma anche perché questi sentimenti sono parte integrante della sua visione del mondo.
Soprattutto, ha mostrato di disprezzare – e di ignorare completamente – la costituzione degli Stati Uniti. Al terzo anno del suo mandato ha dichiarato di avere un’autorità “totale” nei confronti dei governi dei singoli stati. La sua amministrazione non è solo corrotta ma anche ostile a ogni forma di controllo e allo stato di diritto. Trump ha creato un culto proto-autoritario della personalità, licenziando ed emarginando tutti quelli che lo hanno contraddetto con fatti e prove. Questo atteggiamento ha avuto conseguenze tragiche sulla sanità pubblica e sull’economia. Alla fine di febbraio il presidente ha minacciato di licenziare la dottoressa Nancy Messonnier, alta funzionaria dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, che aveva osato lanciare l’allarme sul covid-19. Rick Bright, funzionario del dipartimento della salute, ha raccontato di essere stato demansionato dopo essersi rifiutato di stanziare fondi per promuovere l’idrossiclorochina, un farmaco la cui efficacia contro il covid non è stata dimostrata.
Trump ha attaccato anche l’esercito, definendo i generali “bambini idioti”, e non ha risparmiato i servizi d’intelligence e le forze dell’ordine, ignorandone i consigli e accusandoli di far parte del deep state , lo “stato profondo”. Ha nominato funzionari inesperti per gestire le più importanti istituzioni che garantiscono la sicurezza della nazione. Nel frattempo ha continuato a distruggere le storiche alleanze degli Stati Uniti.
La politica estera di Trump non ha mai favorito in alcun modo gli interessi americani. Anche se alcuni ministri e mezzi d’informazione hanno cercato di dipingerlo come un nazionalista anti-cinese (e gli opinionisti di tutto lo spettro politico hanno sorprendentemente accettato questa lettura falsa senza metterla in dubbio) il reale istinto di Trump è sempre stato quello di schierarsi dalla parte dei dittatori, compreso il presidente cinese Xi Jinping. Un ex funzionario dell’amministrazione che ha visto Trump interagire con Xi e con il presidente russo Vladimir Putin mi ha raccontato che è stato come osservare una persona famosa davanti a una persona molto più famosa. Trump non si rivolgeva ai suoi interlocutori come rappresentante del popolo americano ma si limitava a bramarne l’aura – di potere assoluto, crudeltà e carisma – per poter accrescere la propria immagine. Anche questo comportamento ha avuto effetti disastrosi.
A gennaio del 2020 Trump ha creduto sulla parola a Xi Jinping che annunciava che il covid-19 era “sotto controllo”, così come aveva creduto al dittatore nordcoreano Kim Jong-un quando aveva firmato un accordo sulle armi nucleari. La fascinazione di Trump per i dittatori è la quintessenza della sua ideologia: le sue pulsioni vengono molto prima degli interessi del paese. La vera natura dell’ideologia portata da Trump a Washington non è “Prima l’America”. È “Prima Trump”.
Al funerale di John McCain i simboli del vecchio ordine erano tutti perfettamente in mostra
In un certo senso non sorprende che all’inizio le implicazioni di questa ideologia non siano state capite. Dopo tutto i partiti comunisti dell’Europa orientale – o i chavisti in Venezuela, per fare un esempio più recente – si sono sempre presentati come sostenitori dell’uguaglianza e della prosperità, anche se nei fatti hanno creato disuguaglianza e povertà. Come è progressivamente emersa la verità sulla rivoluzione bolivariana di Hugo Chávez, con il passare del tempo è diventato chiaro a tutti che Trump non ha mai avuto a cuore gli interessi degli statunitensi. Quando hanno capito che il presidente non è un patriota, i politici repubblicani e i funzionari governativi hanno cominciato a parlare di lui in modo più ambiguo, esattamente come in passato hanno fatto le persone che hanno vissuto sotto il giogo di un regime imposto dall’esterno.
A posteriori questa improvvisa presa di coscienza spiega perché il funerale di John McCain, nel settembre del 2018, sia stato così strano. In quell’occasione i due ex presidenti George W. Bush e Barack Obama – un repubblicano e un democratico, rappresentanti della vecchia, patriottica, classe politica – hanno pronunciato i loro elogi funebri senza mai menzionare il presidente in carica. I simboli del vecchio ordine erano perfettamente in mostra: la canzone The battle hymn of the republic, le bandiere statunitensi e due dei figli di McCain nelle loro uniformi dell’esercito, così diversi dai figli di Trump. Sul New Yorker Susan Glasser ha descritto il funerale come “un incontro della resistenza, in una camera blindata e dietro vetri antiproiettile”. A me il funerale di McCain ha fatto pensare alla cerimonia di sepoltura di László Rajk, avvenuta nel 1956. Rajk era un comunista ungherese che era stato a capo della polizia segreta e poi era stato epurato e ucciso dai suoi compagni nel 1949. Sua moglie era diventata un’oppositrice del regime, e il funerale si era trasformato in un raduno politico che aveva anticipato di un paio di settimane la rivoluzione anticomunista in Ungheria.
Al funerale di McCain non è successo niente di così drammatico, ma è apparsa evidente la situazione in cui si trovavano gli Stati Uniti. Più di un anno e mezzo dopo l’insediamento di Trump, quell’evento ha segnato un punto di svolta, il momento in cui molti statunitensi che partecipano alla vita pubblica hanno cominciato ad adottare le strategie, le tattiche e le giustificazioni tipiche degli abitanti dei paesi occupati, e questo anche se i rischi che correvano erano relativi. Negli anni cinquanta i polacchi come Miłosz finivano in esilio, mentre i dissidenti della Germania Est perdevano il diritto a lavorare e a studiare. In regimi più duri, come la Russia di Stalin, chi protestava pubblicamente poteva finire nei campi di lavoro. Gli ufficiali della Wehrmacht che disobbedivano agli ordini venivano uccisi, strangolati lentamente.
Cosa rischia un senatore repubblicano che mette in dubbio la politica estera di Trump? Di perdere il seggio e doversi accontentare di uno stipendio milionario come lobbista o di un incarico alla Harvard Kennedy School? Magari potrebbe toccargli il terribile destino di Jeff Flake, l’ex senatore dell’Arizona che dopo aver sfidato Trump e aver rinunciato a ricandidarsi è stato assunto da Cbs News. O potrebbe subire la “punizione” di Romney, tragicamente escluso dalla lista degli invitati alla Conservative political action conference (un evento a cui partecipano i principali esponenti del mondo conservatore), dove tra l’altro avrebbe rischiato di prendere il covid-19.
Eppure, appena venti mesi dopo l’inizio della presidenza Trump, i senatori e altri funzionari repubblicani che avrebbero dovuto capire la situazione hanno cominciato a raccontare a se stessi storie molto simili a quelle descritte da Miłosz nella Mente prigioniera. Alcune di queste storie si sovrappongono tra loro, mentre altre sono solo deboli coperture di un interesse personale. In ogni caso sono tutte giustificazioni familiari che ricordano quelle del passato. Ecco le più diffuse.
Posso sfruttare il momento per fare grandi cose. Nella primavera del 2019 un mio amico, un simpatizzante di Trump, mi ha messo in contatto con un funzionario dell’amministrazione che chiamerò Mark e che ho incontrato per un drink. Non scenderò nei dettagli, perché è stata una conversazione informale, e comunque Mark non mi ha rivelato nessuna informazione sensibile né ha criticato la Casa Bianca. Al contrario, si è presentato come un patriota e un convinto sostenitore del presidente. Mark credeva alla narrazione del “Prima l’America” ed era sicuro che Trump l’avrebbe l’avrebbe messa in pratica.
Qualche mese dopo l’ho incontrato una seconda volta. A quel punto erano cominciate le audizioni per l’impeachment di Trump e si era appena saputo che il presidente aveva ordinato di richiamare Marie Yovanovitch, l’ambasciatrice in Ucraina, perché si era rifiutata di appoggiare le pressioni della Casa Bianca sul governo di Kiev per aprire un’inchiesta su Biden. La vera natura dell’ideologia dell’amministrazione – prima Trump – diventava sempre più evidente. Il fatto che il presidente avesse minacciato l’Ucraina di tagliare gli aiuti militari e avesse attaccato i funzionari pubblici che si erano opposti a questa sua politica dimostrava che era il presidente non aveva niente di patriottico, al contrario aveva a cuore solo i suoi interessi. Ma nonostante questo Mark si rifiutava di criticarlo. Semplicemente ha cambiato argomento, e mi ha detto che valeva ancora la pena lavorare per Trump per via degli uiguri.
Sul momento ho pensato di aver capito male. Gli uiguri? Cosa c’entravano gli uiguri? Che io sapessi l’amministrazione Trump non aveva fatto niente per aiutare la minoranza musulmana oppressa nella regione cinese dello Xinjiang. Mark mi ha garantito che erano già state scritte lettere e pubblicate dichiarazioni in proposito, e che Trump si era convinto a difendere di persona la causa degli uiguri alle Nazioni Unite. Avevo forti dubbi che gli uiguri avessero tratto qualche beneficio da quelle parole prive di peso. Anche perché la Cina non aveva minimamente modificato il suo approccio e nello Xinjiang i campi di concentramento erano ancora al loro posto. Ma la coscienza di Mark era pulita. Certo, Trump stava distruggendo la reputazione degli Stati Uniti nel mondo e le alleanze storiche del paese, ma lui poteva fare così tanto per gli uiguri da convincersi che avrebbe dovuto continuare a lavorare per l’amministrazione Trump.
Le parole di Mark mi hanno fatto pensare alla storia di Wanda Telakowska, un’attivista culturale polacca che nel 1945 visse una situazione molto simile. Telakowska aveva collezionato e promosso l’arte popolare prima della guerra, ma dopo la fine del conflitto aveva deciso di entrare al ministero della cultura. In quel periodo i vertici comunisti avevano già cominciato ad arrestare e ad assassinare gli oppositori, e la natura del regime si stava palesando. Eppure Telakowska pensò di poter sfruttare il suo ruolo all’interno del partito per aiutare gli artisti e i designer polacchi, promuovendo il loro lavoro e convincendo le aziende a realizzare i loro progetti. Ma le aziende polacche, ormai nazionalizzate, non avevano nessun interesse a finanziare i progetti commissionati da Telakowska. Nel frattempo i politici comunisti, che dubitavano della sua fedeltà, la costrinsero a scrivere articoli pieni di incomprensibili concetti marxisti. Alla fine Telakowska si dimise senza ottenere nessuno dei risultati che aveva pensato di poter raggiungere. Anni dopo un’intera generazione di artisti la condannò come stalinista e si dimenticò di lei.
Posso proteggere il paese dal presidente. È l’argomentazione portata avanti da Anonymous, l’autore di un commento non firmato uscito sul New York Times nel settembre del 2018. Per chi l’avesse dimenticato (ne è passata di acqua sotto i ponti) l’articolo descriveva il “comportamento imprevedibile” di Trump raccontando la sua incapacità di concentrarsi, la sua ignoranza e soprattutto la sua mancanza di “affinità con gli ideali tradizionali dei conservatori: libertà di pensiero, di mercato e delle persone”. La “radice del problema”, concludeva Anonymous, era “l’immoralità del presidente”. In sostanza l’articolo illustrava la reale natura del sistema di valori alternativo portato da Trump alla Casa Bianca, in un momento in cui non tutti, a Washington, l’avevano colta.
Eppure, anche se aveva capito che il paese era guidato dal narcisismo di Trump, Anonymous aveva deciso di non lasciare il suo incarico all’interno dell’amministrazione, di non protestare e di non criticare il presidente e il suo partito. Al contrario, sosteneva che la scelta giusta per i funzionari pubblici come lui fosse restare all’interno del sistema, per cercare di distrarre Trump e di arginarlo. Anonymous era in buona compagnia. Gary Cohn, all’epoca consulente economico della Casa Bianca, ha confessato al giornalista Bob Woodward di aver rimosso alcuni documenti dalla scrivania del presidente per evitare che stracciasse un accordo commerciale con la Corea del Sud. James Mattis, segretario alla difesa, ha deciso di non dimettersi perché pensava di poter convincere il presidente del valore delle alleanze degli Stati Uniti, o quanto meno evitare che fossero distrutte.
Questo genere di comportamento trova riscontri in altri paesi e in altre epoche. Pochi mesi fa, in Venezuela, ho parlato con Víctor Álvarez, ex ministro nel governo Chávez e prima ancora funzionario di alto rango. Álvarez mi ha raccontato di aver chiesto al presidente di proteggere parzialmente l’industria privata e di essersi opposto alle nazionalizzazioni indiscriminate. Álvarez ha fatto parte del governo di Chávez dalla fine degli anni novanta al 2006, un periodo in cui il presidente ha ordinato sempre più spesso alla polizia di reprimere i manifestanti pacifici e ha minato le istituzioni democratiche. Álvarez è rimasto al suo posto, nella speranza di poter smorzare gli istinti economici più dannosi di Chávez. Ma alla fine, dopo aver capito che il presidente aveva creato un culto della personalità e che non prestava più alcun ascolto alle voci discordanti, ha gettato la spugna.
Nei regimi autoritari molti funzionari finiscono per convincersi che la loro presenza non ha alcuna importanza. Cohn, che ha espresso pubblicamente i suoi dubbi quando il presidente si è rifiutato di condannare le violenze dei suprematisti bianchi a Charlottesville, in Virginia, ha scelto di lasciare quando Trump ha preso la disastrosa decisione di imporre dazi sull’acciaio e l’alluminio, danneggiando le aziende statunitensi. Mattis è arrivato al punto di rottura quando il presidente ha abbandonato i curdi, da tempo alleati di Washington nella guerra contro il gruppo Stato Islamico.
Ma anche se entrambi hanno rassegnato le dimissioni, né Cohn né Mattis hanno mai criticato in modo significativo il presidente, anche se la loro presenza all’interno della Casa Bianca aveva permesso di rafforzare la credibilità di Trump presso i tradizionali elettori repubblicani e ancora oggi il loro silenzio fa il gioco del presidente. Per quanto riguarda Anonymous, non sappiamo se lui/lei faccia ancora parte dell’amministrazione. In ogni caso mi preme notare che Álvarez vive in Venezuela, in un vero stato di polizia, ma ha trovato comunque la forza di opporsi al sistema che ha contribuito a creare. Cohn, Mattis e Anonymous, invece, vivono liberamente negli Stati Uniti, ma non sono stati lontanamente così coraggiosi.
Ne trarrò un vantaggio personale. Sono parole che naturalmente pochi osano pronunciare ad alta voce. Forse alcuni ammettono con se stessi di non aver dato le dimissioni né protestato perché così facendo avrebbero perso soldi o potere, ma nessuno vuole avere la fama di arrivista e voltagabbana. Dopo la caduta del muro di Berlino perfino Markus Wolf cercò di presentarsi come un idealista. Nel 1996 quell’uomo cinico fino all’estremo dichiarò di aver creduto onestamente negli ideali marxisti-leninisti e di “crederci ancora”.
Molte persone all’interno e intorno all’amministrazione Trump si preoccupano soprattutto di ottenere un vantaggio personale. Spesso lo fanno con una sfacciataggine sorprendente e insolita nella politica statunitense, almeno a questo livello. Per loro la dottrina “Prima Trump” è una manna dal cielo, perché gli consente di mettere se stessi davanti a tutto. Facciamo un esempio a caso: Sonny Perdue, segretario all’agricoltura, ex governatore della Georgia, come Trump si è rifiutato di inserire le sue aziende agricole in un blind trust una volta eletto. Perdue non ha mai fatto neanche finta di voler separare i suoi interessi politici da quelli personali. Da quando è entrato a far parte del governo ha distribuito, quasi senza controlli, miliardi di dollari di “risarcimenti” alle aziende danneggiate dalle politiche commerciali di Trump.
È la logica di Vichy: il paese sta morendo o è già morto, quindi ogni decisione presa per resuscitarlo è giustificata
Inoltre ha riempito il suo dipartimento di ex lobbisti, affidandogli il compito di regolamentare le loro stesse aziende: il vicesegretario Stephen Censky è stato per ventuno anni amministratore delegato della American Soybean Association, che riunisce migliaia di produttori di soia; Brooke Appleton è stata una lobbista per la National Corn Growers Association (Ncga, un’associazione che fa gli interessi dei produttori di mais) prima di diventare capo dello staff di Censky, e in seguito è tornata a lavorare per l’Ncga; Kailee Tkacz, nominata in una commissione per le politiche nutrizionali, è un’ex lobbista della Snack Food Association. La lista è molto lunga, e ne esistono altre che riguardano il dipartimento per l’energia, l’Agenzia per la protezione ambientale e altri enti governativi.
Nel dipartimento di Perdue lavora uno sconvolgente numero di persone senza nessuna esperienza nel campo dell’agricoltura. Di questi apparatčik moderni, assunti grazie alla loro fedeltà e non alla loro competenza, fanno parte un camionista, il cameriere di un country club, il titolare di un’azienda che produce candele profumate e uno stagista del Comitato nazionale repubblicano. Il camionista viene pagato ottantamila dollari all’anno per ampliare il mercato estero per i prodotti agricoli statunitensi. Con quale giustificazione è stato assunto? A quanto pare aveva una lunga esperienza “nel trasporto e nella spedizione di prodotti agricoli”.
Devo restare vicino al potere Esiste un altro beneficio, anche se difficile da quantificare, che ha spinto molte persone critiche verso Trump a tenere la bocca chiusa: l’inebriante esperienza del potere e la convinzione che la prossimità a una persona potente conferisca uno status più elevato. Anche in questo caso non c’è niente di nuovo. In un articolo pubblicato dall’Atlantic nel 1968, l’esperto di Asia orientale James Thomson spiegò in modo cristallino l’influenza del potere all’interno della burocrazia statunitense durante l’epoca del Vietnam. Quando la guerra aveva preso una piega negativa, raccontava Thompson, molte persone non avevano voluto dimettersi o criticare l’amministrazione perché consumate dalla volontà di preservare la propria “efficacia”, una “misteriosa combinazione di influenza, stile e agganci”. Thompson la definì “la trappola dell’efficacia”.
In alcuni contesti la tendenza a stare zitti o a essere remissivi davanti agli uomini di potere appare irrefrenabile. E non è una prerogativa dei giovani. Alcuni dei funzionari statunitensi più anziani, uomini ricchi e stimati il cui posto nella storia è ormai assicurato, hanno scelto di abbassare la testa per evitare di mettere a rischio il loro legame con il potere
In qualsiasi organizzazione, pubblica o privata, il capo prenderà inevitabilmente decisioni sgradite ai sottoposti. Ma quando i principi fondamentali vengono costantemente violati e i dipendenti scelgono ripetutamente di rinviare le loro dimissioni – “posso sempre uscirne dignitosamente la prossima volta” – allora le politiche più deprecabili si affermano senza incontrare nessuna opposizione.
In altri paesi la trappola dell’efficacia ha nomi diversi. Nel suo recente libro sul “putinismo”, Between two fires, Joshua Yaffa descrive la versione russa di questa sindrome. La lingua russa, sottolinea Yaffa, contiene una parola – prisposoblenets – che indica “una persona abile nel compromesso e nell’adattamento, capace di capire a livello intuitivo cosa ci si aspetta dal suo operato e di adattare conseguentemente il proprio sistema di valori e la sua condotta”. Nella Russia di Vladimir Putin chiunque voglia partecipare al gioco (per restare vicino al potere, per mantenere una certa influenza o per essere rispettato) sa di dover apportare costantemente piccoli cambiamenti al proprio linguaggio e al proprio comportamento, prestando attenzione a cosa dice e a chi lo dice e tenendo presente quali critiche sono accettabili e quali invece costituiscono una violazione delle regole non scritte. Nella maggior parte dei casi chi infrange queste regole non finisce in prigione (la Russia di Putin non è la Russia di Stalin) ma subisce comunque una dolorosa estromissione dalla cerchia ristretta del potere.
Per chi non le ha mai provate, l’attrazione mistica del potere e la sensazione di essere “uno che conta” sono difficili da spiegare. Ma sono elementi reali e abbastanza forti da influenzare anche le persone più importanti e conosciute degli Stati Uniti. John Bolton, ex consulente per la sicurezza nazionale di Trump, ha intitolato il suo libro The room where it happened, la stanza dove è accaduto, perché essere nelle stanze del potere è precisamente quello che ha sempre desiderato. Un mio amico che incontra spesso Lindsey Graham a Washington mi ha confessato che il senatore si vanta costantemente “di avere appena parlato con Trump”, manifestando una eccitazione “adolescenziale”, come se “il più popolare giocatore di football della scuola avesse degnato della sua attenzione il secchione della classe”. Rinunciare a un piacere così intenso è molto difficile.
Alla fine niente ha importanza. Cinismo, nichilismo, relativismo, immoralità, ironia, sarcasmo, noia e divertimento: sono tutti motivi per collaborare, lo sono sempre stati. Marko Martin, scrittore cresciuto nella Germania Est, mi ha raccontato che negli anni ottanta alcuni bohémienne del paese, influenzati dagli intellettuali francesi che andavano di moda in quel periodo, sostenevano che la moralità e l’immoralità non esistessero, che non ci fossero bene e male, giusto e sbagliato, “quindi tanto valeva collaborare” con il regime.
Questo istinto ha una variante americana. Negli Stati Uniti i politici che hanno vissuto rispettando le regole, mantenendo la parola, moderando il linguaggio e pronunciando discorsi accorati sulla moralità potrebbero provare una recondita ammirazione per un uomo come Trump, che infrange tutte le regole senza pagarne le conseguenze. Trump mente, imbroglia, estorce, si rifiuta di mostrare compassione ed empatia, non finge di credere in qualcosa e non segue codici morali. Cerca di sembrare patriottico circondandosi di bandiere e facendo sceneggiate, ma non si comporta come un patriota (è bene ricordare che nel 2016 il suo comitato elettorale cercò l’aiuto della Russia per colpire Hillary Clinton). Per le persone che ricoprono ruoli di primo piano nell’amministrazione e nel partito, questi tratti caratteriali potrebbero avere un fascino profondo e inconscio: se la morale non esiste allora tutti sono esenti dal rispetto delle regole. Se il presidente calpesta la costituzione, perché non dovrei farlo anch’io? Se il presidente può imbrogliare alle elezioni, perché non dovrei farlo anch’io? Se il presidente va a letto con una pornostar, perché non dovrei farlo anch’io?
Questo fenomeno è stato alla base dell’ascesa della cosiddetta alt-right, capace di cogliere il fascino oscuro dell’immoralità, del razzismo sfacciato, dell’antisemitismo e della misoginia ben prima di altre frange del Partito repubblicano. Michail Bachtin, filosofo e critico letterario russo, riconobbe la seduzione del proibito più di un secolo fa, analizzando la profonda attrattiva del carnevale, uno spazio dove cadevano tutti i divieti e la blasfemia sfidava la devozione. L’amministrazione Trump funziona nello stesso modo: niente ha più significato, le regole non contano e il presidente è il re del carnevale.
Il mia parte politica ha i suoi difetti, ma l’opposizione è peggio. Quando il maresciallo Philippe Pétain assunse il controllo del governo collaborazionista di Vichy, nella Francia occupata dai nazisti, lo fece in nome del ritorno a un paese che credeva perduto. Pétain era stato un feroce oppositore della repubblica, e una volta salito al potere sostituì il famoso motto Liberté, égalité, fraternité con Travail, famille, patrie, cioè “lavoro, famiglia, patria”. Al posto “del falso ideale dell’uguaglianza tra gli uomini”, Pétain propose di riportare in primo piano la “gerarchia sociale”: ordine, tradizione e religione. Invece di accettare la modernità, cercò di tornare indietro nel tempo.
Per Pétain la collaborazione con i tedeschi non era solo un’imbarazzante necessità ma uno strumento fondamentale per permettere ai patrioti di combattere il vero nemico: i parlamentari, i socialisti, gli anarchici, gli ebrei e altri democratici ed esponenti assortiti della sinistra francese, che secondo il maresciallo stavano indebolendo la nazione privandola della sua vitalità e distruggendone l’essenza. “Meglio Adolf Hitler che Léon Blum”, dicevano a Vichy, riferendosi al primo ministro socialista (ed ebreo) della fine degli anni trenta. Uno dei ministri del governo di Vichy, Pierre Laval, manifestò perfino la speranza che la Germania conquistasse l’Europa intera, perché altrimenti “i bolscevichi” avrebbero trionfato “dovunque”.
Questa giustificazione dovrebbe suonare molto familiare alle orecchie degli statunitensi. Dal 2016, infatti, ne sono state proposte diverse versioni, e la natura esistenziale della minaccia della “sinistra” è stata ribadita a più riprese. “La nostra realtà attuale e la strada verso il futuro, entrambe dominate dalla sinistra liberale, sono incompatibili con la natura umana”, ha scritto Michael Anton, ex alto funzionario della sicurezza nazionale nell’amministrazione Trump, in After the flight 93 election. La giornalista di Fox News Laura Ingraham, dal canto suo, ha messo in guardia il paese contro la minaccia degli “enormi cambiamenti demografici. In alcune aree degli Stati Uniti sembra che l’America che conosciamo e amiamo non esista più”.
È precisamente questa la logica di Vichy: il paese sta morendo o è già morto, quindi ogni decisione presa per resuscitarlo è giustificata. Tutte le critiche a Trump, tutti i danni che ha arrecato alla democrazia e allo stato di diritto e tutti i sotterfugi che metterà in atto durante il suo mandato scompaiono davanti alle terrificanti alternative: il liberalismo, il socialismo, la decadenza morale, il cambiamento demografico e il degrado culturale che sarebbero stati inevitabili in caso di vittoria di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016.
I senatori repubblicani che manifestano in privato il loro disgusto per Trump ma hanno comunque votato per assolvere il presidente a febbraio provano esattamente questi sentimenti, con diverse varianti. Trump ha nominato i giudici che loro avrebbero voluto, e quei giudici li aiuteranno a creare l’America che vogliono. Lo stesso vale per i pastori evangelici che dovrebbero essere nauseati dal comportamento di Trump, e che invece si affannano a trovare riferimenti nelle scritture per giustificare la situazione attuale. Come Re Davide nella Bibbia, il presidente è un peccatore, un tramite imperfetto, ma incarna comunque il cammino verso la salvezza di una nazione perduta.
I collaboratori di Trump non hanno paura di finire in prigione ma di essere presi di mira su Twitter dal presidente
I tre esponenti più importanti dell’amministrazione Trump – il vicepresidente Mike Pence, il segretario di stato Mike Pompeo e il ministro della giustizia William Barr – sono animati dal pensiero apocalittico di Vichy. Tutti e tre sono abbastanza intelligenti da capire quale sia il vero significato del trumpismo, quanto sia lontano da dio o dalla fede e fino a che punto sia veicolato da un uomo egoista, avido e per nulla patriottico. Eppure un ex esponente dell’amministrazione (uno dei pochi che hanno deciso di dimettersi) mi ha raccontato che Pence e Pompeo “si sono convinti di vivere un momento biblico”. Sentono che tutte le cose che vorrebbero realizzare – vietare l’aborto e i matrimoni gay, oltre che mantenere una maggioranza bianca negli Stati Uniti (anche se non l’hanno mai ammesso) – sono a rischio e che il tempo stringe.
Pompeo e Pence credono che “ci stiamo avvicinando al momento apocalittico del Rapimento della chiesa, e viviamo circostanze dal grande significato religioso”, mi ha spiegato l’ex funzionario. In un discorso pronunciato all’università di Notre Dame, Barr ha dichiarato che “i laici militanti” stanno distruggendo gli Stati Uniti, e che “la mancanza di religione e i valori secolari vengono imposti agli uomini di fede”. Qualsiasi siano le malefatte di Trump e qualsiasi sia il livello della devastazione portata dalle sue azioni, almeno il presidente permette a Barr, a Pence e a Pompeo di salvare gli Stati Uniti da un destino ancora peggiore. Per una persona convinta di vivere nell’apocalisse è facile perdonare qualsiasi cosa a un presidente.
Ho paura di parlare. La paura, naturalmente, è la ragione più importante che spinge le persone a non opporsi a una società autoritaria o totalitaria, neanche quando il leader si macchia di gravi crimini o costringe gli altri fare cose che sanno essere profondamente sbagliate. Nelle dittature estreme come la Germania nazista o la Russia di Stalin le persone temono per la propria vita. In dittature più morbide come la Germania Est dopo il 1950 o la Russia contemporanea, le persone hanno paura di perdere il lavoro o l’appartamento. La paura è un fattore decisivo anche quando la violenza è solo un ricordo e non più una realtà. Negli anni ottanta, quando ero una studentessa a Leningrado, le persone indietreggiavano terrorizzate quando gli chiedevo un’informazione per strada. Nel 1984 nessuno sarebbe mai stato arrestato per aver parlato a uno straniero, ma trent’anni prima il rischio esisteva, e la memoria culturale era sopravvissuta.
Negli Stati Uniti è difficile immaginare che la paura possa essere una motivazione determinante. Non ci sono omicidi di massa dei nemici del regime, e non ci sono mai stati. L’opposizione politica è legale, mentre la libertà di stampa e di parola sono garantite dalla costituzione. Eppure, anche in una delle democrazie più antiche e solide del mondo, la paura ha un suo peso. Lo stesso ex funzionario che ha osservato gli effetti del cristianesimo apocalittico mi ha raccontato, con cupo rammarico, che nella Washington di Trump “sono tutti spaventati”.
Le persone di cui parlava non hanno paura di finire in prigione ma di essere prese di mira su Twitter da Trump. Hanno paura che il presidente inventerà un nomignolo offensivo per loro. Hanno paura di essere prese in giro o messe in imbarazzo, come è capitato a Romney. Hanno paura di perdere il loro prestigio sociale e di non essere più invitati alle feste. Hanno paura di essere abbandonati dagli amici, dai sostenitori e soprattutto dai finanziatori. L’ex presidente della camera Paul Ryan è tra le decine di parlamentari repubblicani che hanno lasciato il congresso dopo l’insediamento di Trump, in uno dei più impressionanti avvicendamenti nella storia del parlamento. Ryan e altri hanno deciso di abbandonare l’incarico perché non sopportavano quello che Trump stava facendo al loro partito e al loro paese. Ma non hanno mai attaccato il presidente, neanche dopo aver lasciato l’incarico di parlamentari.
Il motivo è che hanno paura, e purtroppo non sembrano consapevoli del fatto che questa paura ha diversi precedenti e potrebbe avere conseguenze terribili. Non sanno che in passato le ondate di paura hanno contribuito a trasformare altre democrazie in dittature e non si accorgono che il senato degli Stati Uniti potrebbe diventare come la Duma russa, o il parlamento ungherese, cioè un gruppo di uomini e donne in preda all’esaltazione, comodamente sedute all’interno di palazzi sfarzosi e del tutto prive di influenza e potere. Negli Stati Uniti uno scenario di questo tipo è più vicino di quanto molti abbiano mai immaginato.
A febbraio molti senatori, dirigenti repubblicani e funzionari dell’amministrazione hanno usato diverse versioni di questo ragionamento per giustificare la loro opposizione al processo di impeachment. Tutti avevano visto le prove che dimostravano come Trump avesse oltrepassato il limite nel suo rapporto con il presidente ucraino. E tutti sapevano che Trump aveva cercato di usare gli strumenti della politica estera, inclusi gli aiuti militari, per costringere un leader straniero a indagare su un suo oppositore politico interno. Nonostante questo i senatori repubblicani, guidati dal leader della maggioranza al senato Mitch McConnell, non hanno mai preso sul serio le accuse. Al contrario, hanno ridicolizzato i leader democratici della camera che le avevano presentate, si sono rifiutati di valutare le prove e, con la sola eccezione di Romney, hanno votato per assolvere il presidente. Nessuno ha approfittato dell’opportunità di liberare il paese da un uomo il cui sistema di valori – basato sulla corruzione, sull’autoritarismo, sull’egocentrismo e sugli interessi economici familiari – contrasta con tutto ciò in cui la maggioranza di loro sostiene di credere.
A marzo di quest’anno, appena un mese dopo l’assoluzione, le conseguenze di quella decisione si sono manifestate in tutta la loro evidenza. Quando gli Stati Uniti e il mondo sono stati travolti da virus per cui non esiste una cura, il danno arrecato dal narcisismo di Trump – la sua vera “ideologia” – è diventato perfettamente visibile. Trump ha gestito l’emergenza in un modo caotico e ridicolo. La scomparsa del governo federale non è derivata da un ponderato trasferimento di potere agli stati (come molti hanno cercato di sostenere) né dalla volontà di chiedere l’aiuto delle aziende private, ma è stata la conseguenza inevitabile di tre anni di attacchi contro il professionismo, la lealtà, la competenza e il patriottismo. Il risultato è che decine di migliaia di persone sono morte e l’economia è in rovina.
Questa tragedia sarebbe stata evitata se il senato avesse destituito il presidente un mese prima, o se fosse stato invocato contro di lui il 25esimo emendamento della costituzione (che permette di allontanare un presidente considerato inadeguato), o se i funzionari che riconoscevano anonimamente l’incompetenza di Trump avessero avvertito l’opinione pubblica invece di preoccuparsi solo del potere, o se i senatori non avessero avuto paura dei loro finanziatori, o se Pence, Pompeo e Barr non avessero creduto che dio li ha scelti per ricoprire un ruolo speciale in questo “momento biblico”.
Le persone possono cambiare idea all’improvviso, dopo momenti rivelatori come quello vissuto da Wolfgang Leonhard nel refettorio
Negli Stati Uniti il prezzo del collaborazionismo si è già rivelato altissimo. Ma la discesa non si ferma, così come in passato non si è fermata in molti paesi occupati. Dopo aver accettato le bugie sulla cerimonia inaugurale, oggi le persone che hanno favorito l’affermazione del “Prima Trump” accettano la tragedia sanitaria e il fatto che Washington abbia perso il ruolo di leadership nel mondo. E il peggio potrebbe ancora arrivare. In vista delle elezioni di novembre queste stesse persone potrebbero tollerare (o addirittura favorire) un assalto al sistema elettorale, cioè il tentativo sfacciato di rendere più difficile il voto per posta, di chiudere i seggi e di spaventare le persone per impedirgli di votare. E magari potrebbero anche passare sopra la violenza messa in atto dai sostenitori di Trump, che sui social network incitano i manifestanti ad attaccare fisicamente i funzionari pubblici statali e locali.
Ogni violazione della costituzione e della pace civica viene assorbita, razionalizzata e accettata da persone che un tempo erano capaci di agire in modo migliore. Se Trump sarà rieletto al termine di una campagna elettorale che sarà senz’altro una delle più brutte della storia del paese, queste persone accetteranno anche di peggio. Sempre che non decidano di ribellarsi.
Quando ho incontrato Marianne Birthler, lei mi ha detto di non essere interessata al collaborazionismo nella Germania Est, perché all’epoca tutti collaboravano. Allora le ho chiesto di parlarmi della dissidenza: come si fa a trovare il coraggio di opporsi a un regime sostenuto da tutti i propri amici, insegnanti e datori di lavoro? Nella sua risposta, Birthler ha evitato di usare la parola coraggio. Se le persone possono adattarsi alla corruzione e all’immoralità, mi ha spiegato, allora possono imparare a ribellarsi. La scelta di diventare un dissidente, secondo Birthler, può essere il risultato “di un gran numero di piccole decisioni”: assentarsi dalla parata del primo maggio, rifiutarsi di cantare l’inno del partito e così via. Di questo passo, un giorno, ci si ritrova inequivocabilmente tra i dissidenti. Spesso questo processo si basa sui modelli di comportamento, sulla volontà di imitare una persona ammirevole. In questo meccanismo può esserci perfino una componente “egoistica”. “Vuoi essere importante, vuoi provare rispetto per te stesso”, mi ha detto Birthler.
Per alcune persone questo passaggio è facilitato dal contesto familiare. I genitori di Marko Martin detestavano il regime della Germania Est, e hanno trasmesso la loro ostilità al figlio. Il padre era un obiettore di coscienza, e anche Martin lo è diventato. Fin dai tempi della Repubblica di Weimar i suoi bisnonni avevano fatto parte della sinistra anarcosindacalista e anticomunista, e Martin aveva accesso ai loro libri. Negli anni ottanta Martin si rifiutò di entrare nella Libera gioventù tedesca, l’organizzazione giovanile comunista. Per questo non potè iscriversi all’università e ripiegò su un corso professionale per diventare elettricista, dopo essersi rifiutato di fare il macellaio. Durante le lezioni uno degli altri studenti lo prese da parte e lo avvertì che la Stasi stava raccogliendo informazioni sul suo conto. “Non c’è bisogno che mi dici tutto quello che pensi”, gli disse il compagno. Martin fu autorizzato a emigrare solo nel maggio del 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino.
Cosa deve succedere?
Anche negli Stati Uniti vivono persone come Marianne Birthler e Marko Martin. Persone che hanno imparato dalla famiglia il rispetto della costituzione, che credono nello stato di diritto, che riconoscono l’importanza di servire lo stato in modo disinteressato, che seguono valori e modelli di comportamento estranei al mondo dell’amministrazione Trump. Nell’ultimo anno molte persone di questo tipo hanno avuto il coraggio di difendere quello in cui credono. Alcune sono finite sotto i riflettori. Fiona Hill – studiosa britannica naturalizzata statunitense che è stata nel consiglio per la sicurezza nazionale di Trump – non ha avuto paura di testimoniare durante le audizioni per l’impeachment di Trump alla camera, e neanche di criticare i repubblicani che sostenevano la storia falsa delle dell’interferenza ucraina nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. “Questa è una storia falsa fabbricata e diffusa dai servizi di sicurezza russi”, ha dichiarato Hill nella sua testimonianza al congresso. “La triste verità è che nel 2016 è stata proprio la Russia la potenza straniera che ha attaccato sistematicamente le nostre istituzioni democratiche”.
Anche il tenente colonnello Alexander Vindman, un altro immigrato di successo e un altro difensore della costituzione, ha trovato la forza di riferire e poi criticare pubblicamente l’inappropriata conversazione telefonica tra Trump e il presidente ucraino. Nella sua testimonianza, Vindman ha fatto esplicito riferimento ai valori del sistema politico statunitense, così diversi da quelli del paese in cui è nato. “In Russia rischierei sicuramente la vita se testimoniassi pubblicamente contro il presidente. Ma in quanto funzionario e cittadino degli Stati Uniti posso vivere libero dalla paura per la mia sicurezza e quella della mia famiglia”. Pochi giorni dopo il voto sull’impeachment al senato, Vindman è stato scortato fuori dalla Casa Bianca dagli uomini di un presidente vendicativo che non aveva apprezzato il suo inno al patriottismo americano.
Tuttavia, Hill e Vindman potevano contare su una serie di vantaggi. Nessuno dei due avrebbe dovuto rispondere del proprio gesto agli elettori o ai finanziatori, e nessuno dei due doveva difendere una posizione di prestigio all’interno del Partito repubblicano. Di cosa avrebbero bisogno invece Pence o Pompeo per capire che il presidente è responsabile di una catastrofica crisi sanitaria ed economica? Di cosa avrebbero bisogno i senatori repubblicani per ammettere a se stessi che il culto della lealtà nei confronti di Trump sta distruggendo il paese che dicono di amare? Di cosa avrebbero bisogno i loro collaboratori e subordinati per giungere alle stesse conclusioni, per dimettersi e fare campagna elettorale contro il presidente? Di cosa c’è bisogno, in altre parole, per fare in modo che uno come Lindsey Graham si comporti come Wolfgang Leonhard?
Se è vero, come ha scritto Stanley Hoffmann, che uno storico onesto dovrebbe parlare di “collaborazionismi” perché il fenomeno si presenta in una grande varietà di forme, lo stesso si può dire per la dissidenza. Sarebbe meglio parlare di “dissidenze”. Le persone possono cambiare idea all’improvviso, dopo momenti rivelatori come quello vissuto da Wolfgang Leonhard dentro il raffinato refettorio della nomenklatura, con le tovaglie bianche e i pasti di tre portate. Ma è anche possibile che a cambiare le cose siano eventi esterni come i rapidi cambiamenti politici.
La consapevolezza che il regime aveva perso la propria legittimità è stata uno dei fattori che nella notte del 9 novembre 1989 spinse Harald Jäger, agente della polizia di confine della Germania est, sconosciuto e fino a quel momento fedele al regime, ad aprire i cancelli e a lasciare che le persone oltrepassasseroil muro di Berlino, una scelta che nei giorni e nei mesi successivi contribuì al crollo del paese. Il gesto di Jäger non fu premeditato. Fu una risposta spontanea al coraggio della folla. “La loro forza di volontà era enorme”, raccontò anni dopo parlando delle persone che chiedevano di raggiungere Berlino Ovest. “Non c’era alternativa, dovevo aprire il confine”.
Questi elementi sono intrecciati tra loro in un groviglio difficile da districare. I fattori personali, politici, intellettuali e storici si combinano in modo diverso nell’animo di ogni essere umano, e i risultati possono essere imprevedibili. Forse l’“improvvisa” rivelazione di Leonhard covava da anni, magari dal giorno in cui sua madre fu arrestata. Quella notte di novembre Harald Jäger si commosse davanti alla grandezza del momento storico, ma aveva anche motivazioni più futili, come il risentimento nei confronti del suo superiore che non gli aveva lasciato istruzioni chiare sul da farsi.
Possiamo immaginare che una combinazione simile – elementi futili e politici – porti Lindsey Graham a capire di aver contribuito a spingere il suo paese in un vicolo cieco? Forse potrebbe aiutarlo l’esperienza personale, o un invito da parte di qualcuno che rappresenta il suo vecchio sistema di valori, come un amico di gioventù o un ex collega dell’aeronautica la cui vita è stata messa in pericolo dal comportamento avventato di Trump. O magari servirà un grande evento politico. Quando gli elettori cominceranno a voltare le spalle a Trump, forse Graham li seguirà, sostenendo, come fece Jäger, che “la loro forza di volontà era così grande che non c’era alternativa”. Prima o poi il calcolo dei conformisti è destinato a cambiare. Continuare a sostenere la dottrina del “Prima Trump” diventerà imbarazzante e pericoloso, soprattutto in un momento in cui gli statunitensi sono colpiti dalla peggiore recessione a memoria d’uomo e il numero di morti di covid-19 è largamente superiore a quello degli altri paesi.
E se invece l’unico antidoto, semplicemente, fosse il tempo? Un giorno gli storici racconteranno la nostra epoca e impareranno dagli eventi di oggi, così come noi scriviamo la storia degli anni trenta o quaranta. I Miłosz e gli Hoffmann del futuro ci giudicheranno con la chiarezza del senno di poi, e vedranno, meglio di come lo vediamo noi oggi, il percorso che ha portato gli Stati Uniti verso una storica perdita d’influenza, verso una catastrofe economica, verso un caos politico mai visto dopo gli anni della guerra civile. Forse allora Graham, Pence, Pompeo, McConnel e tante figure minori capiranno cosa hanno contribuito a provocare.
Nel frattempo voglio lasciare a tutte le persone che hanno la malaugurata sorte di partecipare alla vita pubblica negli Stati Uniti di oggi un pensiero di Władysław Bartoszewski, che partecipò alla resistenza polacca durante la guerra, fu prigioniero dei nazisti e degli stalinisti e infine ministro degli esteri in due governi democratici. Poco prima di morire (è vissuto fino a 93 anni) Bartoszewski riassunse la filosofia che lo aveva guidato attraverso tutti quei tumultuosi cambiamenti politici. A sostenerlo non era stato l’idealismo ma un principio diverso: Warto być przyzwoitym, “Cerca solo di essere una persona per bene”. È questo che il futuro ricorderà di noi: se siamo stati persone per bene.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sull’Atlantic.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it