Nell’epoca del covid-19, dell’intelligenza artificiale, dell’emergenza climatica, del braccio di ferro geopolitico tra Stati Uniti e Cina, la decisione della Turchia di ritrasformare l’ex basilica di Santa Sofia in una moschea potrebbe sembrare anacronistica. E invece si adatta perfettamente alla nostra epoca. Rappresenta, tra le altre cose, la strumentalizzazione del passato da parte di chi vuole prendersi la rivincita sulla storia, il recupero di simboli del passato per compensare la difficoltà a creare un nuovo senso comune, e la riduzione della religione ai suoi tratti più grossolani per metterla al servizio della narrazione politica. La scelta è emblematica dell’evoluzione della Turchia e del presidente Recep Tayyip Erdoğan, un tempo portabandiera di un islamismo moderno e moderato, e oggi provocatore spudorato all’insegna di un misto di nazionalismo portato all’estremo e di neo-ottomanesimo da cliché.

“Il passato non è mai morto, non è neppure passato”, scriveva William Faulkner. Santa Sofia riconvertita in moschea è uno schiaffo del passato al presente, che verrà percepito con maggiore o minore intensità a seconda della regione del mondo in cui si vive.

Alcuni cristiani ortodossi vi vedranno un sacrilegio imperdonabile – la chiesa russa e la Grecia sono state le prime a reagire – anche se l’edificio aveva statuto di museo dal 1934 e a Istanbul la minoranza cristiana non esiste quasi più. Alcuni occidentali ci vedranno un segno ulteriore dell’islamizzazione della Turchia (come se il paese fosse stato buddista prima dell’arrivo al potere di Recep Tayyip Erdoğan), che ai loro occhi equivale a un pericolo e insieme a una sfida di civiltà alle porte dell’Europa. Alcuni cristiani d’oriente, che hanno preso l’abitudine di non fare mai niente d’importante di martedì perché è proprio un martedì (il 29 maggio 1453) che Costantinopoli fu conquistata dall’impero ottomano, vi vedranno l’ennesima prova che la loro sopravvivenza è minacciata.

Il sultano non nasconde il suo gioco, anzi. Lo rivendica fino alla caricatura

La basilica di Santa Sofia per più di un millennio è stata un luogo d’intersezione privilegiato tra il potere e la fede: maestosa e imponente per affermare l’autorità temporale, mistica e sacra per incarnare l’ordine spirituale.

Recep Tayyip Erdoğan, che si sogna sultano, oggi agisce su due piani. La trasformazione dell’edificio in moschea è una decisione forte, che dovrebbe soddisfare la sua base elettorale in un momento in cui il suo potere in Turchia viene contestato. ll reis, il capo, come viene soprannominato il presidente fin dall’inizio della sua carriera politica, è prima di tutto una persona pragmatica, cosa che i suoi detrattori tendono a dimenticare.

Questa decisione rappresenta il sostegno che gli mancava su cui poggiare la sua retorica neo-ottomana, anche ben oltre le frontiere turche. Sarebbe riduttivo leggere la sua politica solo attraverso questa lente, ma bisogna ammettere che sempre di più è da qui che attinge per legittimare il suo potere. Quando interviene in Siria o in Libia, quando parla dell’occidente o di Gerusalemme, Erdoğan usa riferimenti all’impero ottomano, e dà l’idea di volere riconciliare la Turchia moderna, nata sulle ceneri di quell’impero, con il suo venerabile passato.

È la rivincita dell’ottocento sul novecento. Il sultano non nasconde il suo gioco, anzi. Lo rivendica fino alla caricatura. Vuole seppellire l’eredità di Atatürk. Vuole (ri)fare della Turchia il centro del mondo islamico, una grande potenza rispettata da tutti, un impero che si estende su una parte dell’oriente. L’unico con cui sembra dimenticare il peso del passato è Vladimir Putin, che vuole rendere a tutti costi un suo partner, anche solo per esasperare i paesi occidentali. Lo zar russo è un modello a cui il reis non smette d’ispirarsi, pur essendo il suo rivale più naturale, tanto per considerazioni storiche che per ragioni di realpolitik.

Le relazioni turco-russe sono la Sublime porta (come veniva chiamato il governo ottomano) contro la “terza Roma”: il ritorno di due logiche imperiali, entrambe pronte a riscrivere la storia, a intervenire militarmente per conquistare più territori e a manipolare la religione a servizio della propria politica. Basta pensare ai sacerdoti russi che baciavano le bombe pronte a essere sganciate sulle zone occupate dai ribelli in Siria.

I più grandi sostenitori di Vladimir Putin, soprattutto in Europa, sono spesso i maggiori detrattori di Erdoğan. Si ammira la cristianità dell’uno, mentre si disprezza l’islamicità dell’altro. E si dimentica, nel farlo, che la storia è più sfumata di quanto sembra. Come spiegare sennò che a metà dell’ottocento Istanbul, al tempo capitale dell’impero ottomano, era abitata in maggioranza da cristiani mentre, un secolo più tardi, quando Atatürk decise di trasformare la basilica di Santa Sofia in museo, quegli stessi cristiani avevano lasciato la città?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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