Have you in my wilderness, il nuovo disco di Julia Holter, ricorda uno di quei giochi dell’enigmistica dove all’interno di una vignetta coerente vanno scovati gli elementi discordanti. Il disegno è molto familiare, fatto di soluzioni musicali riconoscibili, cantabili, amabili e forse anche trite dell’universo sonoro del pop. Gli “intrusi” che affollano le dieci tracce del disco, agiscono su diversi livelli e sono ciò che rende la musica interessante.

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Julia Holter fa parte di una generazione di musicisti ormai adulti, cresciuti con la possibilità di creare musica di qualità nella propria cameretta: registrazione, strumenti, effetti, montaggio, editing, tutto racchiuso nello spazio di un computer portatile o poco più. Per lei, pianista di formazione e con studi di composizione alle spalle, il “fatto in casa” digitale è diventato la chiave per risolvere il senso di inadeguatezza verso l’accademia e per trovare la propria libertà creativa.

È in questo contesto che la musica di Holter prende forma con l’uso disinvolto tanto dei cliché che delle anomalie, come fossero tessere di un mosaico da collocare a piacimento. Visto da lontano l’insieme è compatto, chiaro e definito, ma a uno sguardo più attento non sfuggono le tante asimmetrie e dissonanze che lo compongono: in mezzo a un coro c’è una voce discordante, nel corso di una pulsazione ritmica c’è un beat fuori posto, il ritornello non torna, la fine non chiude. Sono accidenti? Vezzi? O piuttosto un modo per dire: il pop si può fare anche così, perché no?

Non è una rivendicazione, ma solo uno dei molti punti interrogativi di cui la pianista e cantante di Los Angeles investe la sua artisticità. Ne sono pieni i suoi testi sospesi, onirici, colmi di dubbi. Si riflettono in una vocalità camaleontica e nell’assenza di un’immagine pubblica definita: “Non cerco di assumere un ruolo specifico, preferisco evocare un personaggio o un momento”, ha detto Holter in un’intervista alla rivista britannica The Wire. E forse sono la naturale conseguenza di un approccio tanto cauto nell’affermazione quanto anticonformista nella realizzazione.

È strano associare un procedimento che sembra ridare valore a un certo spontaneismo naïf e il fai da te dell’era digitale, un modo di fare musica tanto vicino alla produzione da aver dato un nuovo senso al termine producer. Eppure è chiaro ormai che il magico e insidioso ambito dei software ha determinato non solo un nuovo mondo di suoni e di possibilità produttive, ma anche un approccio più disinibito verso la composizione. E Julia Holter che, come tanti musicisti della sua età, usa congiuntamente software, strumenti musicali e studio di registrazione, ha dato prova che questo è possibile anche nel dorato quanto severo linguaggio del pop.

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