Gli scrittori pensano di scegliere le loro storie dal mondo. Io mi sto convincendo che sia la vanità a farglielo credere. In realtà è esattamente il contrario. Sono le storie a scegliere gli scrittori. Sono le storie che si rivelano a noi. Il racconto pubblico e il racconto privato ci colonizzano. Ci affidano degli incarichi. Insistono per farsi narrare. Narrativa e saggistica sono solo tecniche diverse per raccontare una storia. Per ragioni che non comprendo fino in fondo, la narrativa si agita al di fuori di me.
La saggistica mi viene strappata dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina. Il tema di buona parte di quello che scrivo, narrativa e saggistica, è il rapporto fra potere e impotenza, e il conflitto infinito, circolare, in cui sono impegnati questi due elementi. John Berger, autore straordinario, una volta ha scritto: “Mai più una singola storia verrà raccontata come se fosse l’unica”.
Non c’è mai un’unica storia. Ci sono solo modi di vedere. Perciò quando racconto una storia, non la racconto come un ideologo che contrappone un’ideologia assolutista a un’altra, ma come un cantastorie che vuole condividere con altri il suo modo di vedere. Anche se può sembrare il contrario, quello che scrivo in realtà non parla dei paesi e della loro storia, parla del potere. Della paranoia e della spietatezza del potere. Della fisica del potere. Io credo che la concentrazione di un potere vasto e senza ostacoli nelle mani di uno stato o di un paese, di una grande azienda o di un’istituzione – o addirittura di un individuo, un coniuge, un amico o un parente – a prescindere dall’ideologia, provochi eccessi come quelli che racconterò.
Drizzare le orecchie
Vivendo, come milioni di noi, all’ombra dell’olocausto nucleare che i governi dell’India e del Pakistan continuano a promettere ai loro cittadini sottoposti al lavaggio del cervello, e nel distretto globale della guerra al terrorismo (quello che il presidente Bush definisce piuttosto biblicamente “Il Compito Che Non Ha Mai Fine”), rifletto molto sul rapporto fra i cittadini e lo stato.
In India, quelli tra noi che hanno espresso un’opinione sulle bombe nucleari, le grandi dighe, la globalizzazione economica e la crescente minaccia del fascismo indù – opinioni in contrasto con quelle del governo indiano – sono bollati come “antipatriottici”.
Anche se quest’accusa non mi riempie di sdegno, non è una definizione esatta di quello che faccio o di quello che penso. Una persona antipatriottica è contraria al suo paese e, per deduzione, favorevole a un altro. Ma non è necessario essere antipatriottici per sentirsi profondamente sospettosi nei confronti di tutti i nazionalismi, per essere antinazionalisti. Il nazionalismo, di un tipo o dell’altro, è stato la causa di gran parte dei genocidi del ventesimo secolo. Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima per cellofanare la mente della gente e poi come sudari cerimoniali per avvolgere i morti. Quando le persone indipendenti, che pensano con la propria testa (e qui non includo i media che appartengono alle multinazionali) cominciano a marciare sotto le bandiere, quando scrittori, pittori, musicisti, registi sospendono il loro giudizio e mettono ciecamente la loro arte al servizio della “nazione”, per tutti noi è arrivato il momento di drizzare le orecchie e preoccuparsi.
In India lo abbiamo visto accadere subito dopo i test nucleari del 1998 e durante la guerra di Kargil contro il Pakistan nel 1999. Negli Stati Uniti lo abbiamo visto durante la guerra del Golfo e adesso, durante la guerra al terrorismo. Questa tempesta di bandiere americane made in China.
Negli ultimi tempi, quelli che hanno criticato le azioni del governo Usa (compresa la sottoscritta) sono stati definiti antiamericani.
L’antiamericanismo è in via di consacrazione come ideologia. Il termine antiamericano di solito è usato dalla dirigenza americana per screditare e – diciamo non falsamente, ma piuttosto impropriamente – per definire i suoi critici. Quando qualcuno è bollato di antiamericanismo, è facile che sia giudicato prima di essere ascoltato e i suoi argomenti si perderanno nel marasma dell’orgoglio nazionale ferito.
Astuta fusione
Cosa significa antiamericano? Significa essere contro il jazz? Oppure contro la libertà di parola? Significa non apprezzare Toni Morrison o John Updike? Essere in lite con le sequoie giganti? Significa non ammirare le centinaia di migliaia di cittadini americani che hanno marciato contro le armi nucleari, o le migliaia di oppositori della guerra che costrinsero il loro governo a ritirarsi dal Vietnam? Significa odiare tutti gli americani?
Questa astuta fusione della cultura, della musica, della letteratura americana, della bellezza mozzafiato del paese e dei comuni piaceri della gente comune con le critiche alla politica estera del governo statunitense (di cui purtroppo, grazie alla “stampa libera” americana, la maggior parte degli americani sa ben poco) è una strategia deliberata ed estremamente efficace. È come un esercito in ritirata che si rifugia in una città densamente popolata sperando che la prospettiva di colpire bersagli civili possa fermare il fuoco nemico.
Ci sono molti americani che si sentirebbero mortificati nel vedersi identificati con il loro governo. Le critiche più dotte, roventi, incisive ed esilaranti all’ipocrisia e alle contraddizioni della politica del governo statunitense arrivano da cittadini americani. Quando il resto del mondo vuole sapere cosa sta per fare il governo degli Usa, si rivolge a Noam Chomsky, Edward Said, Howard Zinn, Ed Herman, Amy Goodman, Michael Albert, Chalmers Johnson, William Blum e Anthony Arnove perché dicano cosa sta realmente succedendo.
Allo stesso modo, in India, non centinaia, ma milioni di noi si vergognerebbero e si sentirebbero offesi nell’essere accomunati in qualunque modo alle politiche fasciste dell’attuale governo indiano che, oltre a praticare il terrorismo di stato nella valle del Kashmir (nel nome della lotta al terrorismo), ha finto di non vedere i pogrom avvenuti sotto la regia dello stato contro i musulmani del Gujarat. Sarebbe assurdo pensare che chi critica il governo indiano è antindiano – anche se lo stesso governo è sempre pronto a seguire questa linea. È pericoloso cedere al governo indiano o al governo americano o a chiunque altro il diritto di definire cosa sono l’India o l’America, o cosa dovrebbero essere.
Scacco all’immaginazione
Definire qualcuno antiamericano, essere di fatto antiamericani (o se è per questo antindiani o antimaliani), non è semplicemente razzista, è uno scacco dell’immaginazione. Un’incapacità di vedere il mondo in termini diversi da quelli che l’establishment ha stabilito per noi: se non sei un seguace di Bush sei un taliban. Se non ci ami, ci odi. Se non sei buono, sei malvagio. Se non sei con noi, sei con i terroristi.
L’anno scorso, come molti altri, ho fatto anch’io l’errore di sottovalutare questa retorica post-11 settembre, liquidandola come stupida e arrogante. Mi sono resa conto che non è affatto stupida. In realtà è un astuto sistema di reclutamento per una guerra sbagliata, pericolosa. Ogni giorno rimango sbigottita nel constatare quanta gente sia convinta che opporsi alla guerra in Afghanistan significa appoggiare il terrorismo o votare per i taliban. Ora che l’obiettivo iniziale della guerra – catturare Osama bin Laden (vivo o morto) – sembra scontrarsi con un mare di difficoltà, gli obiettivi sono stati spostati. Si lascia intendere che lo scopo della guerra fosse quello di rovesciare il regime dei taliban e liberare le donne afgane dal burqa. Vogliono farci credere che i marines americani in realtà sono impegnati in una missione femminista.
Provate a pensarci in un altro modo. In India esistono alcune pratiche sociali piuttosto riprovevoli, contro gli “intoccabili”, contro cristiani e musulmani, contro le donne. In Pakistan e in Bangladesh esistono modi ancora peggiori di affrontare le minoranze e le donne. Dovrebbero essere bombardati? New Delhi, Islamabad e Dhaka dovrebbero essere distrutte? È possibile estirpare il fanatismo dall’India a forza di bombe? Possiamo aprirci con le bombe la strada verso il paradiso femminista? È così che le donne hanno conquistato il voto negli Stati Uniti? O che è stata abolita la schiavitù? Possiamo avere un risarcimento per il genocidio dei milioni di indigeni americani sui cui cadaveri sono stati fondati gli Stati Uniti bombardando Santa Fe?
Nessuno di noi ha bisogno di anniversari per ricordare quello che non possiamo dimenticare. È per pura coincidenza, quindi, che mi trovo qui, negli Stati Uniti, a settembre – un mese di spaventosi anniversari. Al primo posto nei nostri pensieri, soprattutto qui in America, c’è l’orrore che ormai è conosciuto come 9/11. Quasi tremila civili hanno perso la vita in quel feroce attacco terroristico. Il dolore è ancora profondo. La rabbia ancora intensa. Le lacrime non si sono asciugate. E una guerra strana, mortale, infuria in tutto il mondo. Eppure chiunque abbia perso una persona cara sa benissimo che nessuna guerra, nessun atto di vendetta, nessuna bomba a grappolo sganciata sulle persone care o sui figli di qualcun altro potrà attutire il suo dolore o restituirgli i suoi cari. La guerra non può vendicare i morti. La guerra è solo una brutale dissacrazione della loro memoria.
Alimentare l’ennesima guerra – questa volta contro l’Iraq – strumentalizzando cinicamente il dolore della gente, confezionandolo per special televisivi sponsorizzati da aziende che vendono detersivi o scarpe da tennis significa svalutare il dolore, svuotarlo di significato. Assistiamo a una volgare esibizione del commercio del dolore, al saccheggio dei più intimi sentimenti umani a scopi politici. Per uno stato è una cosa terribile e violenta fare questo ai suoi cittadini.
Non è un argomento molto brillante da affrontare in un incontro pubblico, ma ciò di cui vorrei parlarvi è la perdita. Il dolore, il fallimento, lo scoraggiamento, il torpore, l’incertezza, la paura, la morte dei sentimenti, la morte dei sogni. L’assoluta, implacabile, infinita, abituale ingiustizia del mondo. Cosa significa la perdita per i singoli individui? Cosa significa per intere culture, per interi popoli che hanno imparato a conviverci come con una compagna fedele?
Dal momento che stiamo parlando dell’11 settembre, forse è giusto ricordare cosa significa questa data non solo per chi ha perso i suoi cari in America l’anno scorso, ma per le persone di altre parti del mondo che già da tempo le attribuivano un significato particolare. Questa panoramica storica non vuole essere un atto di accusa o una provocazione. Serve solo per condividere il dolore della storia. Per diradare un po’ la nebbia. Per dire ai cittadini americani nel modo più gentile e umano: benvenuti nel mondo.
Ventinove anni fa, in Cile, l’11 settembre 1973 il generale Pinochet rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende con un golpe appoggiato dalla Cia. “Non bisognerebbe permettere al Cile di diventare marxista solo perché il suo popolo è irresponsabile”, disse Henry Kissinger, allora consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Nixon.
Le esigenze del potere
Nel 1999, dopo l’arresto del generale Pinochet in Gran Bretagna, il governo statunitense ha declassificato migliaia di documenti segreti. Contenevano prove inconfutabili del coinvolgimento della Cia nel colpo di stato e del fatto che il governo americano aveva informazioni dettagliate sulla situazione in Cile durante il regime di Pinochet. Eppure Kissinger assicurò al generale il suo appoggio: “Negli Stati Uniti, come sa, guardiamo con simpatia a quello che lei sta cercando di fare”, disse. “Auguriamo al suo governo ogni bene”.
Quelli di noi che hanno conosciuto solo la vita in una democrazia, per quanto malata, faticano a immaginare cosa significhi veramente vivere in una dittatura e sopportare la perdita assoluta della libertà. Non è solo delle persone che Pinochet ha assassinato, ma della vita rubata ai vivi che bisogna rispondere.
L’11 settembre ha una risonanza tragica anche in Medio Oriente. L’11 settembre 1922, ignorando lo sdegno arabo, il governo britannico proclamò un mandato sulla Palestina, il seguito della dichiarazione Balfour pubblicata nel 1917 dall’Inghilterra imperiale, con il suo esercito ammassato alle porte della città di Gaza. La dichiarazione Balfour prometteva ai sionisti europei una patria per il popolo ebraico. Due anni dopo la dichiarazione, lord Balfour, ministro degli esteri britannico, disse: “In Palestina non intendiamo procedere a una consultazione dei desideri degli attuali abitanti del paese. Il sionismo, sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in antiche tradizioni, in esigenze attuali e in speranze future di importanza molto più profonda rispetto ai desideri o ai pregiudizi dei 700mila arabi che oggi risiedono in questa antica terra”.
Con quanta indifferenza il potere imperiale decretava quali esigenze erano profonde e quali non lo erano. Con quanta indifferenza vivisezionava le antiche civiltà. La Palestina e il Kashmir sono piaghe purulente dell’impero britannico, doni insanguinati al mondo moderno. Sono linee di rottura dei furibondi conflitti internazionali di oggi.
Nel 1947 le Nazioni Unite divisero ufficialmente la Palestina e assegnarono il 55 per cento della terra palestinese ai sionisti. Nel giro di un anno ne avevano conquistato il 78 per cento. Il 14 maggio 1948 fu proclamato lo stato di Israele. Pochi minuti dopo la proclamazione, gli Stati Uniti riconobbero Israele. La Cisgiordania fu annessa dalla Giordania. La Striscia di Gaza finì sotto il controllo militare dell’Egitto.
Formalmente la Palestina cessò di esistere, tranne che nella mente e nel cuore di centinaia di migliaia di palestinesi ormai diventati profughi.
Nell’estate del 1967 Israele occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Ai coloni furono offerti assistenza e sussidi statali perché si trasferissero nei territori occupati. Da allora quasi ogni giorno altre famiglie palestinesi sono costrette a lasciare la loro terra e sono spinte nei campi profughi. I palestinesi che vivono in Israele non hanno gli stessi diritti degli israeliani e vivono come cittadini di serie B nella loro patria di un tempo.
Per decenni si sono susseguite rivolte, guerre, intifade. Hanno perso la vita decine di migliaia di persone. Sono stati firmati accordi e trattati, sono state dichiarate e violate tregue. Ma lo spargimento di sangue non si è interrotto. La Palestina resta ancora illegalmente occupata. La sua gente vive ancora in condizioni inumane, in veri e propri ghetti dove è soggetta a punizioni collettive, coprifuoco di ventiquattr’ore, dove è quotidianamente umiliata e brutalizzata. Vivono senza uno straccio di dignità. Con poche speranze in vista. Non hanno il controllo della loro terra, della loro sicurezza, dei loro movimenti, delle loro comunicazioni, dei loro rifornimenti idrici. E così quando vengono firmati gli accordi e fatte circolare parole come autonomia, o perfino stato, vale sempre la pena chiedersi: che genere di autonomia? Che tipo di stato? Che genere di diritti avranno i suoi cittadini?
Brandelli di speranza
I giovani palestinesi che non sanno frenare la loro rabbia si trasformano in bombe umane e assediano le strade e i locali pubblici israeliani, facendosi saltare in aria, uccidendo la gente normale, seminando il terrore nella vita quotidiana e infine aggravando il sospetto e l’odio reciproco nelle due società. Ma gli attentati suicidi sono un atto di disperazione individuale, non una tattica rivoluzionaria. Se gli attacchi palestinesi provocano il terrore fra i civili israeliani, forniscono anche la copertura perfetta per le incursioni quotidiane del governo di Israele nel territorio palestinese, la scusa perfetta per il colonialismo vecchio stile, del diciannovesimo secolo, mascherato da guerra nuovo stile del ventunesimo secolo. Il più fedele alleato politico e militare di Israele è sempre stato il governo degli Usa. Il governo degli Usa ha bloccato, insieme a Israele, quasi tutte le risoluzioni dell’Onu che cercavano una soluzione equa e pacifica al conflitto. Ha sostenuto quasi tutte le guerre che Israele ha combattuto. Quando Israele attacca la Palestina, sono i missili americani che si schiantano sulle case palestinesi. E ogni anno Israele riceve parecchi miliardi di dollari dagli Usa.
Quali lezioni dovremmo trarre da questo tragico conflitto? È veramente impossibile per gli ebrei, che hanno sofferto così crudelmente – più crudelmente, forse, di qualsiasi altro popolo – capire la vulnerabilità e le aspirazioni di quelli che hanno cacciato? La sofferenza estrema alimenta sempre crudeltà? Che speranza può lasciare tutto questo all’umanità? Cosa succederà al popolo palestinese in caso di vittoria? Quando una nazione senza stato proclama finalmente uno stato, che genere di stato sarà? Quali orrori saranno commessi sotto la sua bandiera? È per uno stato autonomo che dovremmo combattere, o per il diritto a una vita di libertà e dignità per tutti, indipendentemente dall’appartenenza etnica e dalla religione? La Palestina un tempo era un baluardo del laicismo in Medio Oriente. Ma ora la debole, non democratica, sicuramente corrotta ma senza dubbio non settaria Organizzazione per la liberazione della Palestina sta perdendo terreno nei confronti di Hamas, che sposa un’ideologia settaria e combatte in nome dell’islam. Per citare il loro manifesto: “Noi saremo i suoi soldati e la legna da ardere del suo fuoco che brucerà i nemici”.
Il mondo è chiamato a condannare gli attentatori suicidi. Ma possiamo ignorare la lunga strada su cui hanno viaggiato prima di arrivare a questa destinazione? Dall’11 settembre 1922 all’11 settembre 2002 – ottant’anni sono un periodo molto lungo per combattere una guerra. Ci sono consigli che il mondo può dare al popolo della Palestina? Qualche brandello di speranza che possiamo offrirgli?
Le guerre dei Bush
In un’altra zona del Medio Oriente, l’11 settembre tocca una ferita aperta più di recente. L’11 settembre 1990 George Bush padre, allora presidente degli Usa, tenne un discorso al congresso in seduta congiunta per annunciare la decisione del suo governo di dichiarare guerra all’Iraq.
Il governo statunitense oggi dice che Saddam Hussein è un criminale di guerra, un crudele despota militare che si è macchiato di genocidio contro il suo stesso popolo. È una descrizione piuttosto esatta del personaggio. Nel 1988 rase al suolo centinaia di villaggi nell’Iraq settentrionale e usò le armi chimiche e le mitragliatrici per uccidere migliaia di curdi. Oggi sappiamo che nello stesso anno il governo statunitense gli fornì 500 milioni di dollari in sussidi per acquistare prodotti agricoli americani. L’anno dopo, nel 1989, quando aveva felicemente portato a termine la sua campagna di genocidio, il governo Usa raddoppiò i sussidi portandoli a un miliardo di dollari.
Gli fornì anche batteri di ottima qualità per l’antrace così come elicotteri e materiali che potevano essere usati per produrre armi chimiche e biologiche.
E così viene fuori che quando Saddam Hussein stava commettendo le sue peggiori atrocità, i governi degli Usa e del Regno Unito erano suoi stretti alleati. Ancora oggi il governo della Turchia, che nel campo dei diritti umani ha precedenti fra i più spaventosi del mondo, è uno dei maggiori alleati del governo americano. Il fatto che il governo turco abbia oppresso e assassinato il popolo curdo per anni non ha impedito al governo americano di imbottire la Turchia di armi e aiuti allo sviluppo. Chiaramente non era stata la preoccupazione per il popolo curdo a provocare il discorso del presidente Bush al congresso.
Cos’era cambiato? Nell’agosto del 1990 Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait. Il suo peccato non era tanto aver commesso un atto di guerra, ma aver agito autonomamente, senza ordini dai suoi padroni. Questa manifestazione di indipendenza bastò a sconvolgere l’equazione di potere nel Golfo. E così si decise che Saddam Hussein doveva essere soppresso, come un cagnolino che ha perso l’affetto del padrone.
Il primo attacco alleato contro l’Iraq si svolse nel gennaio 1991. Il mondo seguì la guerra in prima serata sugli schermi dalla tv (in quei giorni in India bisognava andare nella hall di un albergo a cinque stelle per vedere la Cnn). In un mese di bombardamenti devastanti furono uccise decine di migliaia di persone. Quello che molti non sanno è che la guerra non finì allora. La furia iniziale è sbollita trasformandosi nel più lungo attacco aereo contro un paese dai tempi della guerra del Vietnam. Nell’ultimo decennio le forze americane e britanniche hanno lanciato migliaia di missili e di bombe sull’Iraq.
Un decennio di bombardamenti non è riuscito a far sloggiare Saddam Hussein, la “Bestia di Baghdad”. Ora, quasi dodici anni dopo, il presidente George W. Bush ha intensificato la retorica. Propone una guerra totale il cui obiettivo è addirittura un cambiamento di regime. Il New York Times dice che l’amministrazione Bush sta “seguendo una strategia meticolosamente pianificata per convincere l’opinione pubblica, il congresso e gli alleati della necessità di affrontare la minaccia di Saddam Hussein”.
I rapporti degli ispettori sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq sono contraddittori, e molti hanno detto chiaramente che il suo arsenale è stato smantellato e che il paese non è in grado di costruirne un altro. In compenso non ci sono dubbi sull’entità e sulla portata dell’arsenale di armi nucleari e chimiche dell’America. Il governo statunitense darebbe il benvenuto a eventuali ispettori? Lo farebbero la Gran Bretagna o Israele?
E se poi l’Iraq avesse veramente l’arma nucleare, questo giustificherebbe un attacco preventivo degli Usa? Gli Stati Uniti hanno il più grande arsenale di armi nucleari del mondo. Sono l’unico paese al mondo ad averlo realmente usato contro popolazioni civili, in Giappone. Se gli Stati Uniti hanno il diritto di lanciare un attacco preventivo contro l’Iraq, ebbene, allora ogni potenza nucleare ha il diritto di decidere un attacco preventivo contro qualsiasi altra.
Al Faeda contro al Qaeda
Le guerre non sono mai combattute per ragioni altruistiche. Di solito sono combattute per l’egemonia, per gli affari. E poi naturalmente c’è l’affare della guerra. Difendere il proprio controllo del petrolio mondiale è fondamentale per la politica estera americana. I recenti interventi militari del governo Usa nei Balcani e in Asia centrale hanno a che fare con il petrolio. Si dice che Hamid Karzai, il presidente marionetta dell’Afghanistan insediato dagli Usa, sia un ex dipendente dell’Unocal, una società petrolifera con sede in America.
Il paranoico pattugliamento del Medio Oriente da parte del governo Usa è dovuto al fatto che la regione possiede due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Il petrolio permette ai motori americani di ronzare dolcemente. Il petrolio permette al libero mercato di funzionare. Chi controlla il petrolio mondiale controlla il mercato mondiale. E come si controlla il petrolio?
Nessuno lo ha detto con più eleganza di Thomas Friedman, editorialista del New York Times. In un articolo intitolato “La follia paga” spiega che “gli Usa devono rendere chiaro all’Iraq e agli alleati americani che l’America userà la forza senza negoziati, senza esitazioni e senza l’approvazione dell’Onu”. Il suo consiglio è stato seguito. Nelle guerre contro l’Iraq e l’Afghanistan così come nelle umiliazioni pressoché quotidiane che il governo statunitense infligge alle Nazioni Unite. Nel suo libro sulla globalizzazione, Le radici del futuro, Friedman scrive: “La mano nascosta del mercato non funzionerà mai senza il pugno nascosto. McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas. E il pugno nascosto che garantisce la sicurezza del mondo e delle tecnologie della Silicon Valley si chiama esercito, aeronautica, marina e corpo dei marines degli Stati Uniti”. Forse questo è stato scritto in un momento di vulnerabilità, ma è sicuramente la descrizione più sintetica e accurata del progetto di globalizzazione economica che abbia mai letto.
Dopo l’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, la mano e il pugno nascosti sono venuti allo scoperto, e ora abbiamo una chiara visione dell’altra arma dell’America – il libero mercato – che si abbatte sul mondo in via di sviluppo. In urdu la parola che significa profitto è faeda. Al Qaeda significa parola, parola di Dio, legge. Perciò in India alcuni di noi hanno ribattezzato la guerra al terrorismo al Qaeda contro al Faeda, la Parola contro il Profitto (il gioco di parole non è voluto). Per il momento sembra che al Faeda sia destinata ad avere la meglio. Ma non si può mai dire.
Negli ultimi dieci anni di sfrenata globalizzazione economica, il reddito totale del mondo è aumentato in media del 2,5 per cento all’anno. Eppure il numero dei poveri nel nostro pianeta è aumentato di cento milioni. Delle cento maggiori economie mondiali, 51 sono quelle di grandi aziende, non di paesi. Il reddito totale dell’1 per cento più ricco del mondo è uguale al reddito totale del 57 per cento più povero, e la disparità è in aumento. Ora, sotto la copertura sempre più vasta della guerra al terrorismo, questo processo è in via di accelerazione.
Gli uomini in giacca e cravatta hanno una fretta indecorosa. Mentre le bombe ci piovono addosso e i missili cruise solcano il cielo, mentre si ammassano armi nucleari per rendere il mondo un posto più sicuro, si firmano contratti, si registrano brevetti, si costruiscono oleodotti, si saccheggiano le risorse naturali, si privatizza l’acqua e si minacciano le democrazie.
Nel villaggio globale la rivolta civile sta per esplodere. In paesi come l’Argentina, il Brasile, il Messico, la Bolivia e l’India, crescono i movimenti contro la globalizzazione economica. Per contenerli i governi stanno rafforzando il loro controllo. I contestatori vengono bollati come terroristi e trattati come tali. Ma rivolta civile non significa solo marce, manifestazioni e proteste contro la globalizzazione. Purtroppo significa anche una discesa verso il crimine e il caos e ogni genere di disperazione e disillusione che, come sappiamo dalla storia (e da quanto abbiamo visto con i nostri occhi), diventano gradualmente un fertile terreno di coltura per cose terribili – il nazionalismo culturale, il fanatismo religioso, il fascismo e, naturalmente, il terrorismo.
Sciocchezze
Tutte cose che vanno a braccetto con la globalizzazione. Si va diffondendo l’idea che il libero mercato spezzerà le barriere nazionali e che l’obiettivo finale della globalizzazione economica è un paradiso hippy dove il cuore sarà l’unico passaporto e noi tutti vivremo insieme felicemente dentro una canzone di John Lennon (Imagine there’s no country…). Sciocchezze.
Il libero mercato non minaccia la sovranità nazionale ma la democrazia. Mentre la differenza fra ricchi e poveri aumenta, il pugno nascosto ha un grosso lavoro da fare. Le multinazionali a caccia di accordi locali che generano profitti enormi non possono far passare questi accordi e amministrare i loro progetti nei paesi in via di sviluppo senza l’attiva connivenza della macchina statale – la polizia, i tribunali, a volte perfino l’esercito.
Oggi la globalizzazione economica ha bisogno di una confederazione internazionale di governi leali, corrotti e preferibilmente autoritari nei paesi più poveri che approvino riforme impopolari e soffochino le sommosse.
Ha bisogno di una stampa che finga di essere libera. Ha bisogno di tribunali che fingano di dispensare giustizia. Ha bisogno di bombe nucleari, di eserciti, di leggi più severe sull’immigrazione e di efficaci controlli costieri per accertarsi che siano solo i soldi, le merci, i brevetti e i servizi a essere globalizzati – non la libera circolazione delle persone, non il rispetto dei diritti umani, non i trattati internazionali sulla discriminazione razziale o sulle armi chimiche e nucleari, sulle emissioni dei gas serra, sul cambiamento del clima o, Dio non voglia, sulla giustizia.
È come se un solo gesto verso la responsabilità internazionale potesse far crollare l’intera baracca.
Quasi un anno dopo l’avvio ufficiale della guerra al terrorismo sulle rovine dell’Afghanistan, in nome della difesa della democrazia, le libertà vengono limitate in un paese dopo l’altro. Il dissenso di ogni tipo viene definito terrorismo. E per affrontarlo vengono approvate leggi di ogni tipo. Osama bin Laden sembra essere svanito nel nulla. Si dice che il mullah Omar sia riuscito a fuggire in motocicletta. I taliban forse sono scomparsi, ma il loro spirito e il loro sistema di giustizia sommaria stanno riaffiorando nei posti più disparati. In India, in Pakistan, in Nigeria, in America, in tutte le repubbliche centroasiatiche guidate da ogni genere di despoti e naturalmente in Afghanistan, sotto l’Alleanza del nord appoggiata dagli Usa.
Intanto nel centro commerciale c’è una svendita di mezza stagione. È tutto scontato – oceani, fiumi, petrolio, genetica, api impollinatrici, fiori, infanzia, fabbriche di alluminio, compagnie telefoniche, buon senso, riserve naturali, diritti civili, ecosistemi, aria – ovvero tutti i 4.600 milioni di anni di evoluzione. Sono confezionati, sigillati, etichettati, prezzati e disponibili sugli scaffali (la merce non può essere restituita). Quanto alla giustizia, mi dicono che sia in offerta anche lei. Potete procurarvi quanto di meglio il denaro può comprare.
Decisioni segrete
Fortunatamente il potere ha una sua durata. Quando arriverà il momento, forse questo possente impero, come altri prima di lui, farà il passo più lungo della gamba e imploderà. Sembra che alcune crepe strutturali siano già comparse. Mentre la guerra al terrorismo allarga la sua rete, il cuore aziendale dell’America è in piena emorragia. Malgrado le interminabili chiacchiere a vuoto sulla democrazia, oggi il mondo è guidato da tre delle istituzioni più segrete del pianeta: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale per il commercio che sono tutte e tre, a loro volta, dominate dagli Usa. Le loro decisioni vengono prese in segreto. Le persone che le dirigono vengono nominate a porte chiuse. In realtà nessuno sa nulla di loro, della loro politica, delle loro idee, delle loro intenzioni. Nessuno li ha eletti. Nessuno ha detto che potevano prendere decisioni a nostro nome. Un mondo guidato da una manciata di avidi banchieri e da amministratori delegati che nessuno ha eletto non può durare.
Il comunismo di stile sovietico è fallito non perché fosse intrinsecamente malvagio, ma perché era malato. Permetteva a troppa poca gente di usurpare troppo potere. Il capitalismo di mercato del ventunesimo secolo, di stile americano, fallirà per le stesse ragioni. Sono due edifici costruiti dall’intelligenza umana, minati dalla natura umana.
Anche per noi è giunto il momento, dice il tricheco di Alice. Forse le cose andranno peggio e poi meglio. Forse c’è un piccolo dio lassù nel cielo che si sta preparando per noi. Un altro mondo non è solo possibile, è in viaggio. Forse molti di noi non saranno qui ad accoglierlo, ma in una giornata tranquilla, se ascolto molto attentamente, posso sentirlo respirare.
Traduzione di Giuseppina Cavallo
Internazionale, numero 459, 29 ottobre 2002
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