Se c’è una cosa su cui sono tutti d’accordo è che la questione palestinese non ha soluzioni. In effetti la matassa appare inestricabile, e in passato ha deluso crudelmente le attese di molti. Per questo motivo oggi i tre quarti degli israeliani e dei palestinesi sono convinti che la situazione attuale rimarrà immutata ancora a lungo.
Eppure due dichiarazioni recenti sembrano aver aperto una piccola breccia. La settimana scorsa, a Davos, il primo ministro israeliano ha ipotizzato che a seguito di un accordo di pace alcuni coloni potrebbero restare a vivere nei loro insediamenti sotto l’autorità di uno stato palestinese. “Non ho intenzione di smantellare nessuna colonia né di cacciare alcun israeliano da casa sua”, ha dichiarato Benjamin Netanyahu. Non si è trattato di un malinteso o di un lapsus, perché poco dopo uno dei suoi collaboratori ha precisato che “i coloni potranno scegliere se restare e rispettare la legge palestinese o spostarsi in zone poste sotto la sovranità israeliana”.
A quanto pare il primo ministro israeliano sta già pensando a uno scenario in cui ci sarà spazio per uno stato palestinese, e lo dimostra il fatto che abbia già parlato del futuro delle colonie in Cisgiordania che non sarebbero annesse a Israele nel quadro di uno scambio di territori con la Palestina.
L’estrema destra israeliana, come prevedibile, ha dato in escandescenze. Alleati del Likud (il partito di Netanyahu) nella coalizione più a destra della storia dello stato ebraico, gli estremisti hanno parlato di “aberrazione” e hanno chiarito di non essere “venuti nella terra d’Israele per vivere agli ordini di Mahmud Abbas”. La coalizione di governo è in fermento, scossa profondamente dalle dichiarazioni di Davos e dalla possibilità che alcuni israeliani si trovino a vivere in Palestina come i palestinesi vivono oggi in Israele.
Neanche una settimana dopo, un’altra frase ha calamitato l’attenzione del mondo. A pronunciarla è stato il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che ha evocato la possibilità di un ritiro graduale delle truppe israeliane dalla Cisgiordania dopo la proclamazione di uno stato palestinese. “Chi propone una scadenza di 10 o 15 anni in realtà non accetta l’idea del ritiro, ma sarebbe ragionevole pensare a un processo graduale che non superi i tre anni”, ha spiegato Abu Mazen in un videomessaggio indirizzato ad alcuni specialisti della sicurezza israeliani riuniti a Tel-Aviv.
Abu Mazen ha precisato che sarebbe “felice” di parlare davanti dal Knesset e di accogliere Netanyahu al parlamento palestinese, e in sostanza è già entrato in una fase di negoziato pubblico sul numero di anni da concedere alla presenza di truppe israeliane all’interno delle frontiere dello stato palestinese. Una rondine non fa primavera, e nemmeno due. Ma di sicuro l’universo diplomatico arabo ed europeo seguirà con grande attenzione ogni prossimo sviluppo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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