Non vedevo il mio amico Sasha dall’inverno del 2011. Eravamo a Mosca, e lui era in uno stato di esaltazione. Nella capitale russa si susseguivano le manifestazioni di protesta contro i brogli alle elezioni parlamentari di dicembre, e di lì a poco altre città avrebbero seguito l’esempio protestando fino all’indomani della rielezione di Vladimir Putin. Nei centri urbani della Russia nasceva un movimento di opposizione, e Sasha era convinto che avrebbe conquistato anche la provincia e le campagne fino a imporre, un giorno lontano, la democrazia.

In quel momento tutto sembrava dargli ragione. Eppure la stessa persona è arrivata martedì a Parigi per chiedermi un consiglio sulla possibilità di trovare un appoggio all’estero. Sasha ha deciso: vuole emigrare.

È il terzo amico russo in tre settimane ad avermi confessato di non avere più un futuro in patria. Putin non è eterno, mi spiega, ma non lo è nemmeno lui. Sasha sa di avere i giorni contati all’interno dell’organizzazione culturale dove lavora, e sua moglie non trova più spazi in televisione. Vogliono partire, anche perché la situazione sta peggiorando e presto potrebbero non averne più la possibilità.

“Siamo venti milioni di russi che vivono all’europea dopo la perestrojka”, mi racconta. “Ma ormai è finita”. Questo 20 per cento della popolazione di cui parla Sasha è composto dalle nuove classi medie urbane attorno a cui è nata l’opposizione democratica. Non sono miliardari, ma tra gli alti e bassi di una relativa libertà hanno trovato il modo di farsi una vita creando una piccola impresa nel settore dei servizi, aprendo una casa editrice o una scuola privata, creando siti internet più o meno redditizi e trovando un posto nelle sedi delle grandi aziende o nelle isole di libertà della stampa.

Il credito bancario gli ha permesso di comprare un’automobile, e due volte all’anno si concedono una vacanza. Niente mete di lusso come la Costa Azzurra o le Bahamas, ma località turistiche in Turchia o Bulgaria, e magari un paio di giorni a Parigi, Berlino o Roma. Soprattutto hanno potuto comprare uno smartphone e un computer, finestre sul mondo e spazi di totale libertà di espressione (almeno fino a quando non saranno inglobati nell’orbita dello stato).

Come tanti altri, Sasha ci aveva creduto. Aveva creduto che la Russia europea sarebbe diventata semplicemente la Russia. E invece l’isteria nazionalista ha travolto tutto, insieme al martellante ritornello sulla “giunta fascista di Kiev” e al moltiplicarsi dei riferimenti alla “Nuova Russia”. Persino l’Eco di Mosca – straordinaria radio della capitale, retaggio della perestrojka che il regime aveva lasciato sopravvivere come cauzione democratica – viene lentamente soffocata dal suo azionista di maggioranza, una banca che controlla Gazprom, potentissimo strumento del Cremlino.

L’aria per quelli come Sasha è diventata irrespirabile, e se non si piegheranno perderanno rapidamente l’attività o lo stipendio. Hanno provato a riderci su, dicendo che almeno hanno recuperato la Crimea. Ma ormai non hanno più voglia di ridere. Solo di andare via, finché sono in tempo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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