La più grande rapina russa raccontata dai Panama papers
Il 7 aprile Vladimir Putin ha ripetuto quello che il suo portavoce aveva già chiarito in precedenza: nei Panama papers non ci sono prove di corruzione da parte del suo entourage e ancor meno dello stesso presidente, e a quanto pare si tratta solo di un tentativo statunitense di destabilizzare la Russia e il suo condottiero.
È una linea di difesa come un’altra, e in concreto non è possibile dimostrare che Putin stia mentendo. Ciò che è indiscutibile e perfettamente chiaro a tutti i russi è che l’ex proprietà collettiva dei tempi sovietici, tutta la ricchezza nazionale di un paese sterminato, è stata oggetto della più grande rapina della storia dell’umanità.
Tutto è cominciato 25 anni fa, quando Boris Eltsin prese il posto di Michail Gorbačëv. Il nuovo presidente tagliò improvvisamente i ponti con il comunismo e scelse di seguire i consigli dei giovani economisti che lo circondavano, fautori di una terapia d’urto che consisteva nell’immediata privatizzazione di tutte le aziende statali, ovvero di tutte le aziende del paese.
Un piano astuto
Il problema è che dopo 70 anni di comunismo e secoli di feudalesimo, in Russia non esistevano capitali privati né imprenditori. La soluzione trovata fu quella di distribuire agli impiegati le obbligazioni (bond) che li avrebbero trasformati in azionisti delle loro fabbriche. Sembrava un progetto equo e quasi una degna prosecuzione del comunismo, se non fosse che i dipendenti non sapevano che farsene di queste azioni che non garantivano voce in capitolo nella gestione delle aziende. Di conseguenza, spinti dalla necessità, vendettero le obbligazioni per un tozzo di pane (letteralmente) agli amici del nuovo governo, che ottennero l’appoggio delle banche, naturalmente dopo aver pagato un obolo alla famiglia di Eltsin.
Tutto sommato le cose sono andate secondo i piani, ma nel frattempo la Russia è diventata una cleptocrazia
Il piano era estremamente astuto: le enormi tangenti versate al Cremlino e i rimborsi bancari furono finanziati dalle tesorerie delle aziende, che in questo modo si trovarono a terra invece di essere sostenute con nuovi capitali.
Per le aziende più interessanti bastarono pochi mesi prima che gli ex quadri del Partito comunista si ritrovassero a gestire enormi patrimoni, mente i loro fantocci diventavano proprietari della Russia.
In sostanza, dato che in Russia non c’erano capitalisti, era il caso di inventarli, o almeno è quello che sostenevano i teorici della “terapia d’urto”, naturalmente a porte chiuse. Secondo le previsioni alcuni sarebbero finiti presto in rovina, mentre altri sarebbero diventati i capitani d’industria di cui c’era bisogno, in attesa che i loro figli frequentassero Harvard e creassero una nuova borghesia industriale e finanziaria.
Tutto sommato le cose sono andate secondo i piani, ma nel frattempo la Russia è diventata una cleptocrazia in cui i nuovi ricchi e i nuovi potenti, i servizi segreti, si guardano a vicenda con sospetto. Era vero ai tempi di Eltsin e lo è ancora oggi. In questo sistema, naturalmente, un conto offshore da due miliardi di dollari è importante quanto un furto di caramelle.
(Traduzione di Andrea Sparacino)