L’accordo da 7,1 miliardi di euro tra ChemChina e Pirelli fa dell’Italia la destinazione preferita degli investimenti cinesi. Secondo Bloomberg, infatti, negli ultimi 12 mesi in Italia sono arrivati in totale quasi 13 miliardi di euro, più di quanto Pechino abbia investito negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Vendere ai cinesi sembra essere l’ultima occasione per uscire dalla recessione più lunga che la storia d’Italia ricordi. E la Repubblica Popolare, dal canto suo, approfitta volentieri della crisi e dell’euro debole.

“Più Cina in Italia e più Italia in Cina”: così nell’ottobre del 2014 il premier italiano Matteo Renzi aveva accolto a Roma il suo omologo cinese Li Keqiang. In quell’occasione furono firmati una ventina di accordi commerciali, per un valore di otto miliardi di euro. Tra questi c’erano l’accordo tra la Cassa depositi e prestiti e la China development bank e quello tra il Fondo strategico italiano e la China investment corporation.

Inoltre, c’erano i contratti e i memorandum di cui si era discusso a giugno, quando Renzi era volato in Cina a parlare d’affari: Ansaldo, Finmeccanica, Ferretti, Terna, Snam, Reti, Eni, Enel e Gse, la controllata del ministero dell’economia e delle finanze. Dopo anni di declino economico, l’Italia è diventata un terreno di caccia per le aziende cinesi, desiderose di giocare finalmente un ruolo di primo piano e prendere il controllo di marchi di valore ma in crisi di liquidità. Solo nel 2014 quelli della Repubblica Popolare Cinese sono stati il 27 per cento di tutti gli investimenti esteri in Italia.

Se i mezzi d’informazione cinesi il più delle volte riportano solo la notizia delle acquisizioni, l’Ouzhou Shibao del 24 marzo spiega che l’acquisizione della Pirelli dimostra che “i cinesi sono gente pragmatica che sa trasformare le proprie debolezze in un punto di forza”.

La Cina, scrive il quotidiano in lingua cinese pubblicato a Parigi, ha il mercato automobilistico più grande del mondo e sta crescendo molto anche nella produzione. Ma è ben cosciente di essere in difetto invece dal punto di vista della qualità e dei marchi di prestigio. “Con l’investimento in Pirelli acquisisce tecnologia e contemporaneamente mette un piede in nuovi mercati”. Una costante, negli investimenti cinesi degli ultimi anni in Europa: “Prendere il meglio da ogni paese e cercare nuovi sbocchi commerciali”.

Senza troppo clamore, la Cina sta investendo nei paesi europei da almeno un decennio. Poco meno di un miliardo all’anno tra il 2004 e il 2008, un primo picco nel 2011 per arrivare ai 18 miliardi del 2014. Prima dell’accordo con la Pirelli, il Regno Unito era in cima alla lista con il suo settore immobiliare, ma l’Italia seguiva a poca distanza con il suo settore energetico. E questo sembra solo l’inizio.

La crescente importanza della Cina come partner per gli investimenti in Europa è emersa la scorsa settimana, quando l’Italia si è unita a Regno Unito, Francia e Germania nel sostegno all’Asian infrastructure investment bank (Aiib) a guida cinese. La Banca, lanciata lo scorso novembre per favorire gli investimenti nelle infrastrutture e nelle telecomunicazioni, rappresenta un potenziale rivale della Banca mondiale e dell’Asian development bank (Adb). Fa parte di quello che alcuni economisti cinesi hanno già definito un nuovo piano Marshall. E non a caso, come nel secondo dopoguerra, la nostra penisola riceverà gran parte degli investimenti.

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