Anche quest’anno le autorità della regione autonoma dello Xinjiang, tradizionalmente abitata dalla minoranza turcofona e musulmana degli uiguri, hanno vietato ai funzionari pubblici, agli insegnanti e agli studenti di osservare il mese di digiuno del Ramadan. Ai ristoranti halal di alcune zone è stato anche “consigliato” di rimanere aperti in cambio di una riduzione del numero di ispezioni sanitarie.
Il Congresso mondiale degli uiguri – che riunisce la diaspora uigura – ha ufficialmente chiesto a Pechino di abolire queste restrizioni, utili solo ad “acuire le divisioni” tra la minoranza e il resto della comunità cinese nella regione. L’appello, come prevedibile, è rimasto inascoltato: bisogna essere prima cinesi (anche se non lo si è) e poi musulmani (se proprio non se ne può fare a meno). La tensione nella regione è altissima. L’attentato del 22 giugno (almeno 18 morti nella città di Kashgar) è solo l’ultimo di una lunga serie.
La regione autonoma dello Xinjiang è un deserto ricco di risorse naturali costellato di oasi e circondato su tre lati da catene montuose imponenti. Il Far west cinese, un territorio storicamente conteso tra popolazioni nomadi e sedentarie annesso militarmente alla Repubblica popolare nel 1949 a 3.200 chilometri da Pechino. Un tempo dalla capitale ci si arrivava in tre giorni di treno mentre oggi, con l’alta velocità, ci vogliono solo 12 ore. Così i cinesi di etnia han arrivano a frotte, attirati da incentivi fiscali, opportunità di lavoro e la possibilità di fare affari grazie al petrolio, al gas e al cotone di cui la regione è ricca. Ma gli uiguri quasi non hanno accesso a queste opportunità e, mentre la forbice economica si allarga, le differenze demografiche tra han e uiguri si assottigliano.
Sommersione etnica
Xinjiang significa “nuova frontiera”. Quando Mao lo (ri)conquistò, gli han non erano neanche il 7 per cento della popolazione . Oggi sono più del 40 per cento e dettano legge. La chiamano “sommersione etnica” ed è la politica messa in atto da Pechino per favorire l’“integrazione” di aree con forti spinte indipendentiste come il Tibet e lo Xinjiang.
“Non mi va di tornare a casa”, mi ha detto qualche tempo fa un amico uiguro ormai perfettamente integrato nella realtà pechinese, “dovrei tagliarmi la barba”. Fuma, beve e mangia carne di maiale da anni, ma non può sopportare i divieti pretestuosi che sono imposti ai suoi familiari e amici. La sua barba è la manifestazione visibile della solidarietà con chi, vivendo in Xinjiang, non può portarla. A Pechino gli è concessa la barba e se volesse potrebbe praticare il Ramadan. Ma ormai nella sua regione d’origine a maggioranza musulmana ci sono regolamenti che vietano il velo e le barbe lunghe. Addirittura alcuni negozi sono stati costretti a vendere alcolici e sigarette e in una provincia nel sud della regione autonoma è stata organizzata una festa della birra.
Inoltre oggi gli uiguri possono compiere l’haji, il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri dell’islam, solo con viaggi organizzati dallo stato e i minori di 18 anni hanno il divieto di entrare nelle moschee. Poiché anche le madrase sono bandite, i genitori sono costretti a insegnare il Corano ai propri figli di nascosto. Tutte imposizioni vissute come provocazioni e digerite con difficoltà perché abdicare alla propria religione significa negare le proprie radici storiche e culturali.
È ormai una guerra civile a bassa intensità che supera i confini regionali
Così, negli anni, per molti la resistenza culturale si è trasformata in guerriglia. Dagli scontri tra han e uiguri del luglio del 2009 a Urumqi, il capoluogo della regione, dove 197 persone rimasero uccise e 1.600 furono ferite, a oggi, si contano più di mille vittime. E, considerando il black out di informazioni che da allora ha colpito la regione, probabilmente sono molte di più. Gli uiguri, esasperati, reagiscono ai divieti e alle restrizioni con le armi (coltelli e bombe artigianali), Pechino fa arresti a tappeto, distrugge moschee e reprime con il pugno di ferro e condanne esemplari. Di fatto ha trasformato la regione in uno stato di polizia.
È ormai una guerra civile a bassa intensità che supera i confini regionali. Gli attentati a piazza Tiananmen (ottobre del 2013, cinque morti e 28 feriti) e alle stazioni ferroviarie di Kunming (marzo del 2014, 29 morti e 143 feriti) e di Guangzhou (maggio del 2014, 6 feriti) sono gli esempi più eclatanti.
Nel sud della Cina sono comparsi poster che raffigurano gli uiguri come terroristi barbuti e pericolosi e sui muri della moschea di Kashgar, un tempo uno degli snodi principali della via della seta, sono comparsi murales propagandistici dove gli uiguri che non rispettano i divieti hanno la pelle scura e vengono scacciati via come ratti . A Kashgar le tradizionali case in terra cruda con le tipiche verande di legno sono state abbattute già nel 2009. Al loro posto i palazzi a più piani della Cina che verrà, quella delle città di terza fascia che dovranno guidare i consumi nella fase della “nuova normalità”. Condomìni e quartieri molto simili che livellano le differenze storico-culturali in tutta la Cina. Ma gli uiguri si ribellano. E chi può scappa.
Pechino è preoccupata che vadano ad addestrarsi nei campi dei fondamentalisti islamici in Asia centrale per poi tornare in Cina. Secondo il governo sarebbero almeno cento (ma alcuni parlano già di diverse centinaia) i cittadini cinesi arruolati nelle fila del gruppo Stato islamico. In un video recente diffuso dalla propaganda del gruppo fondamentalista il loro combattente più anziano racconta la sua storia: ha ottant’anni, parla uiguro e dice di essersi rifugiato con la famiglia in Siria dopo “sessant’anni di oppressione cinese”. Gli fa eco nella stessa lingua una classe di una decina di bambini che finalmente possono studiare il Corano. “Ci stiamo preparando nella terra del califfato. Poi verremo in Cina ad alzare la bandiera del Turkestan”. Non si sa quanti di loro torneranno davvero in Xinjiang. Quel che è certo è che per la maggioranza uigura che non parte la vita quotidiana si fa sempre più dura.
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