“La festa della donna si festeggia oggi perché alcune operaie sono morte in un incendio l’8 marzo di molti anni fa”.
La prima volta che l’ho sentito me l’ha detto mia madre tanti anni fa. L’ultima l’ha scritto qualcuno pochi minuti fa.
Eppure è tutto falso. Il mito fondativo è, appunto, tale. E non è tanto il fatto che sia inventato a essere sorprendente, quanto il tipo di mito.
Andiamo per ordine.
Sulla genesi dell’8 marzo non c’è una versione unica e condivisa, ma diverse stratificazioni che sono confluite in una narrazione con cui ormai abbiamo familiarità e che somiglia più al telefono senza fili che a una ricostruzione storica (sull’origine e sulla fondazione dell’8 marzo si può leggere Alessandra Gissi, Otto marzo. La giornata Internazionale delle donne in Italia, Viella 2010). I segni di questa incertezza sono visibili anche nell’assenza di ulteriori particolari: quante donne sono morte? E dove? A Boston o a New York? L’incendio le ha uccise in un calzaturificio o in una filanda? E c’era davvero un albero di mimosa nel cortile?
Non c’è dubbio, le donne bruciate in una fabbrica funzionano come mito fondativo. Ma non è che funzionano troppo? Perché un’origine passiva ha avuto la meglio su una di ostinazione e ribellione (che, in questo caso, era pure la versione vera)? È come se invece di Rosa Parks che rifiuta di sedere “al posto dei negri” sull’autobus ricordassimo la sua estromissione da quell’autobus. Una caduta invece di una rivendicazione lucida e intenzionale.
Torniamo alle origini: siamo all’inizio del ventesimo secolo, a Copenaghen si riuniscono alcune donne provenienti da tutto il mondo (durante la prima e la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste). Clara Zetkin è una di loro. Zetkin propone di stabilire una data in ogni paese per promuovere i diritti delle donne, primo tra tutti il suffragio.
È difficile immaginare Clara Zetkin e le donne che in quegli anni hanno combattuto in condizioni avverse e molto più ostili di oggi (sì, quello in cui viviamo non sarà ancora un mondo ideale, ma ne è molto meno lontano di allora) come persone passive, lagnose, remissive (più facile farlo con un numero indefinito di donne senza nome bruciate o morte soffocate chissà dove e quando).
Inverosimile ridurle all’essere “dolcemente complicate” quando rivendicavano diritti e uguaglianza – l’unica giusta, quella delle stesse possibilità. Non in nome di una superiorità “in quanto donna”, migliore, più fragile, più intelligente, più sensibile, ma per la “pretesa” di essere uguali nei diritti, che è un concetto incredibilmente facile da capire e da tradire.
Fino al 1915 si celebrano varie giornate internazionali della donna in diverse città. Il primo 8 marzo è quello tedesco nel 1914 e la scelta della data sembra essere casuale. Tre anni dopo – è il 1917 – le operaie di Pietrogrado celebrano la giornata della donna e avviano la rivoluzione di febbraio.
Per la consacrazione ufficiale dell’8 marzo devono passare ancora molti anni. L’Onu proclama il 1975 “Anno internazionale delle donne” e celebra l’8 marzo come giornata internazionale delle donne. Nel 1977 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite propone una giornata per le donne (United Nations Day for Women’s Rights and International Peace) e molte nazioni scelgono quella data.
E a proposito di anniversari e di diritti (richiesti, pretesi, rivendicati e non ancora compiutamente ottenuti), ieri per i cinquant’anni di Selma Barack Obama ha detto: “We honor those who walked so we could run. We must run so our children soar. We respect the past, but we don’t pine for the past. We don’t fear the future”.
La marcia non è finita, l’uguaglianza non è stata ancora realizzata.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it